Si dice ormai da molti anni che la critica letteraria è morta, nonostante nessuno abbia davvero mai visto né i cadaveri né i funerali di queste, per l’appunto, fantasmatiche figure che hanno provato a descrivere, commentare, elogiare e, a loro modo, stroncare i tratti distintivi della letteratura contemporanea. Forse la disciplina sarà anche morta, o al massimo avrà preso semplicemente delle forme diverse che vivono da sempre in una perenne transizione conflittuale nell’ampio presente tra nostalgia e futuro; ma non i critici, questi continuano a esistere e a occupare luoghi giurisdizionali, come possono essere le aule universitarie, dove abitano gli studiosi di letteratura coi quali essi si incontrano e discutono, tra l’io e il sé, sulle forme simboliche dell’arte.
E dunque, mentre Tiphaine Samoyault, professoressa all’École des Hautes Études di Parigi e critica letteraria di Le Monde, difendeva su Les Matins de France Culture la decisione dell’editore Puffin Books di modificare il testo delle opere di Roald Dahl, allargando poi la questione della Cancel culture alle cosiddette opere-mondo, Paolo Tortonese, professore di letteratura francese all’università Sorbonne Nouvelle e tra i maggiori esperti dell’Ottocento, prendeva le vesti del critico letterario rispondendo per le rime alla collega sul portale Fabula: difesa / messa in discussione del canone occidentale? Di una visione politica, e per forza di cose culturale, del mondo delle lettere? Dell’educazione sentimentale (o morale o civile, anche estetica – insomma: una vera e propria Bildung) dei giovani lettori attraverso gli strumenti della storia e della teoria letteraria?
Questi fenomeni di sovrapposizione o appropriazione di corpi, visioni e identità tra critici letterari e studiosi di letteratura sono al centro del volume di Tortonese L’uomo in azione Letteratura e mimesis da Aristotele a Zola, edito da Carocci verso la fine di marzo («Frecce», pp. 194, € 22,00), proprio quando usciva in traduzione italiana la risposta di Tortonese a Samoyault, o Cancellare Balzac: progressismo e censura, sulla neonata rivista «Snaporaz». Curiosamente, anche il libro di Tortonese è una traduzione, in questo caso del fortunato saggio L’Homme en action. La représentation littéraire d’Aristote à Zola (Classiques Garnier, 2013) – e anche se qui si interrompono le corrispondenze temporali tra ricerca e dibattito pubblico, non per questo il libro è immune alle interferenze del contemporaneo.
Del resto, ciò che faceva, e fa ancora oggi Tortonese è partire dal canone, dai classici e dalla tradizione, per problematizzarne lo statuto conoscitivo da un punto di vista storico e formale e sviluppare una teoria dell’arte mimetica che tenga conto tanto della parabola storica, in termini di ricezione, della Poetica di Aristotele, quanto degli effetti estetici che la teoria aristotelica ha avuto nella stagione letteraria che ha maggiormente abbracciato l’eredità di Aristotele: il romanzo dell’Ottocento; il tutto secondo una metodologia di indagine che, come dice l’autore, «si pone a metà strada fra la teoria e la storia, in una posizione» che è «sì scomoda», «intermedia», «conflittuale» ma che, se ritorniamo al dibattito sulla Cancel culture, appare più necessaria che «utile»: «la teoria», infatti, «è utile alla storia perché le impedisce di considerarsi sempre nuova, di trascurare la verifica empirica, di perdersi nell’astrazione delirante. La teoria è utile alla storia perché le impedisce di inaridirsi nella cronaca, di sonnecchiare nella tautologia, di rinunciare vilmente alla propria opera di continua revisione» (p. 9).
Il volume si apre con l’introduzione all’edizione francese e si dipana tra le maglie della teoria e della storia lungo tre tappe: il mondo antico, tra Platone e Aristotele, tra la Repubblica e la Poetica; il Rinascimento, nei suoi snodi aristotelici – o meglio: malintesi, filologici ed editoriali – italo-francesi tra Cinque e Seicento; e il Naturalismo, con il suo desiderio ottocentesco di risolvere sul piano dialettico l’irrisolto conflitto tra imitare e rappresentare, tra descrivere e raccontare. Seguono, infine, una breve conclusione e alcune preziose postille, che altro non sono che il lascito aristotelico nella teoria letteraria del Novecento, o almeno nella sua ricezione lukácsiana – accompagnata da una coda genettiana sulla sfuggente e imprescindibile categoria aristotelica di verosimiglianza. Ma anche in questo caso, la bipartizione funziona: se Genette svuota di ogni portata filosofica la mimesis, Lukács gliela restituisce riconoscendo, sulla scia di Auerbach, il valore universale di cui le singole azioni dell’uomo sono portatrici.
Platone e Aristotele, Zola e Lukács. Anche il lettore, a questa altezza, avrà capito che i due principali campi di indagine di Tortonese sono la teoria e storia letterarie del mondo antico e dell’Ottocento, e che la descriptio rinascimentale risulta un po’ schiacciata, anche a livello quantitativo, dalle analisi del primo e del terzo capitolo. Per contro, però, l’impostazione dialettica, quasi hegeliana nella sua tripartizione argomentativa (che risponde, anche, all’idea tipicamente francese dell’essai), rende quasi necessaria la natura transitoria del secondo capitolo: tesi e sintesi portano a compimento l’idea che l’aristotelismo classico, anche nella sua declinazione moderna (il romanzo), incentra «la rappresentazione letteraria sull’azione dei personaggi», ed è «connesso con il principale sforzo della sua filosofia, quello di reintrodurre il tempo nell’essere, di articolare il divenire e la metafisica, di riconciliare il divenire e la conoscenza» (p. 148).
L’orizzonte, il punto di arrivo e in un certo senso lo sguardo di Tortonese mirano a una riabilitazione filosofica e formale del rapporto fra mimesis e realtà, i cui media letterari (dalla tragedia all’epica fino al romanzo moderno, la Dichtung nella sua totalità romantica) danno conto del valore universale delle azioni dell’uomo. Tale principio può reggere, però, se e soltanto se queste categorie vengono inserite all’interno di uno schema cognitivo che intende la mimesis del reale attraverso un filtro che predilige la dimensione conoscitiva rispetto a quella estetica all’interno del circolo ermeneutico di teoria, storia e ricezione. In questo senso, privilegiare l’azione sul carattere, secondo la lettura che Tortonese fa con acribia interpretativa e filologica a partire dal testo greco, significa assegnare alla narrativa mimetica (di Zola) un carattere sperimentale, dotato di un profondo fondamento scientifico senza che l’autore debba rinunciare all’autonomia della finzione; in questo, l’arte diventa produzione, e non semplice riproduzione, delle cose, ristabilendo «una distanza tra opera e mondo, un distacco dell’artista nei confronti della realtà, per poter affermare meglio, paradossalmente, che una conoscenza universale trova origine nell’invenzione artistica» (p. 129).
Il laboratorio del mondo in questa metamorfosi della mimesis da punto di incontro tra platonismo e aristotelismo a espressione di «“documenti umani”» (p. 142) comporta a sua volta un ripensamento dei rapporti tra io e mondo, dato che, a queste condizioni, il «romanziere sarà tanto sociologo quanto psicologo» (p. 143) se vuole svelare i meccanismi profondi della realtà. Si tratta, allora, di riconoscere un potere politico e culturale all’intenzionalità dell’autore, alla sua volontà di agire, come l’uomo dei suoi romanzi, e di formare l’io e il sé nel mondo della realtà e della finzione, «collocandosi in una posizione di rottura nei confronti della tradizione in ciò che riguarda la relazione tra psicologia e morale» (p. 146) – che in definitiva è ciò che il critico letterario, quando esce dalle vesti di studioso, come Samoyault e Tortonese hanno fatto nei mesi scorsi, deve ambire a fare: collocarsi nel campo (mimetico) dell’arte per restituire ai soggetti conoscenti (l’autore, il lettore, l’editore, etc.) un primato conoscitivo nei confronti del mondo.