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Il romanzo del reale

Il romanzo del reale

Diario napoletano 2. I set aperti, la nuova legge regionale, FILMaP a Ponticelli, le nuove leve

Pubblicato quasi 8 anni faEdizione del 4 febbraio 2017

Una luce tenera e fluttuante (che solo Pasquale Mari, mago napoletano delle luci in cinema e teatro formatosi con Teatri Uniti saprebbe mettere in forma), investe le pietre di Palazzo Serra di Cassano dando l’addio a Gerardo Marotta, grande giacobino redivivo e artefice dell’Istituto di Studi Filosofici. Incontro Marcello Sannino, autore di un film su di lui, Seconda Natura, mi dice che sta girando su Porta Capuana. Penso agli occhi della Bergman che scrutano sgomenta e incantata da un taxi le strade di Napoli: Viaggio in Italia capolavoro rosselliniano. Riordino gli appunti presi sugli Atelier di FILMaP e sul cinema indipendente che nasce dal territorio napoletano, dal suo «basso» che, come gli anditi, i pertugi, gli androni che si aprono in questa città polimorfa, emettono segnali dal fondo, senso e vitalità. Scorrono come rivoli le immagini del reale e ti sorprendono, ti appassionano, suscitano la voglia dei registi di venire a girare in questa città. Sono nomi prestigiosi, di vetrina, vanno al di là dei facili successi di cassetta dei nuovi film di Siani o Salemme, al di fuori del glamour delle passerelle di Dolce e Gabbana nei vicoli napoletani. Gianni Amelio è venuto a girare qui il suo Tenerezza, con un attore sempre emozionante come Renato Carpentieri, Marco Tullio Giordana girerà tra Castelvolturno e Villa Literno il suo Due soldati, Stefano Incerti ha terminato La parrucchiera, Toni D’Angelo ha in uscita il suo Falchi, e Massimiliano Pacifico monta un suo diario prodotto da Angelo Curti sul Jouvet di Servillo. Si sprigionano le archetipiche «sirene» genius loci della città, nel serial scritto da Ivan Cotroneo o nel nuovo film di Sandro Dionisio, mentre si cerca un regista per la serie tratta da L’amica geniale della Ferrante. I Manetti Bros girano un musical, Nunn’è Napule al Porto, e il gruppo di videomaker The Jackal prepara un lungo, Addio fottuti musi verdi. Una produzione inglese racconta il soggiorno napoletano di Oscar Wilde con Rupert Everett, Ferzan Ozpetek annuncia il suo Napoli velata. Indivisibili di Edoardo De Angelis è stata la sorpresa della Mostra di Venezia. Beppe Gaudino progetta Non mi avrete mai, dal romanzo di Gaetano Di Vaio, con l’ «anima collettiva» di Figli del Bronx. Tutto questo mentre proprio Di Vaio «costruisce» una Casa del Cinema «a porte aperte» in un antico palazzo napoletano e la Film Commission opera infaticabilmente da anni con sempre meno risorse e contando quasi solo sulle forze di Maurizio Gemma. Ma soprattutto si è vinta la battaglia sulla nuova legge regionale, a colpi di aggregazioni (il CLARC, Coordinamento Lavoratori Regione Campania del Cinema e audiovisivi): proposte fattive che professionisti e operatori hanno condotto con pertinacia ed entusiasmo rompendo tutti gli steccati e irrompendo con richieste recepite in gran parte dalla nuova legge, che però attende integrazioni e operatività: alla produzione e alla promozione si deve aggiungere il tassello essenziale della formazione. È da qui, dalla pedagogia attiva, da questa goethiana «provincia pedagogica» (quella che è il centro misterico del Wilhelm Meister, nel ricordo struggente cantato da Mignon di un «paese dove fioriscono i limoni», Palermo e Napoli insieme) che scaturisce un sentimento singolare e unico, uno «stato nascente» di cinema che sento raccontare dalle voci giovani e appassionanti dei registi che si formano alla scuola di FILMaP, ai suoi Atelier di Cinema del Reale, con il coordinamento pedagogico di Leonardo Di Costanzo e quello organizzativo di Antonella Di Nocera. FILMaP è il centro di formazione e produzione cinematografica a Ponticelli, esito di un lavoro culturale e sociale che l’associazione Arci Movie (presidente Roberto D’Avascio) conduce da 26 anni. Risultato del primo biennio degli Ateliers: oltre a 12 brevi documentari (visibili dal 5 marzo sul canale VOD di FILMTV), 5 lungometraggi in produzione, realizzati con il «tutoraggio» di società come Indigo, Teatri Uniti, Figli del Bronx e Parallelo 41. Film che hanno girato e gireranno i festival internazionali, a partire da Visions du Réel di Nyon. Più che farmeli raccontare ascolto dalle voci degli autori un sentimento, colgo le dinamiche di un sentire,da cui viene fuori quella intima certezza che Antonella Di Nocera esprime così: «i film del reale dipingono la vita, ma se sono veri la vita li cambia». Viene fuori una immagine della città inusuale, disseminata, che ha la potenza della rivelazione, cioè del mettere in evidenza «velando due volte», depositando una velatura che, come per un pittore, è il filtro di uno sguardo, già inscritto nelle cose, una magia del reale, un occhio dentro persone e storie, che ti guarda mentre tu lo guardi, ti restituisce un riconoscimento. Ciò avviene nello spostare al centro la cosiddetta periferia. Dal centro storico e dall’entroterra si irradia in quell’ «arrière-pays», di cui scriveva Yves Bonnefoy, un sentimento del paesaggio, una geografia emozionale (che Giuliana Bruno nel suo bel libro Atlante delle emozioni ripercorre anche attraverso Napoli, tra vita e cinema). La città invisibile nel senso di Calvino, da cui traspare un reale che si fa più immaginario tanto più è sorpreso dal vero. Fuori dalla cronaca si tratta di cogliere un tempo diverso, più disteso, memoriale e attuale, senza pericolo di essere digeriti e fagocitati dai media e dalla ufficialità. Avviene come un miracolo: nasce un «romanzo della realtà» in questi cinque film, che ancora sono invisibili, nel crogiolo alchemico della loro gestazione (i titoli sono provvisori). Senilis, di Francesco Romano e Carlo Manzo, romanzo contadino. Si pensa a Tolstoij, a Checov, oltre che a Virgilio che scriveva le sue Bucoliche sull’arenile di Mergellina. Una casa patriarcale nella campagna di Nola, abitata solo da ultraottantenni, il patriarca, la moglie e le tre sorelle. Mi dicono: «la parola che ci piace è pietas nel senso latino e religioso, di mutuo soccorso, è come se ogni giorno fosse un evento straordinario». Volturno di Ylenia Azzurretti, romanzo storico. Trovato lungo un fiume. Si pensa a Celati, a Mark Twain. Il film risale la corrente del Volturno, fiume delle trasformazioni, del Dio Vertumno, dalla preistoria alla storia e a un avvenire fatto di uccelli che vengono a sostare alla foce. I versi di Ricardo Reis, eteronimo di Pessoa sono controcanto a cinque personaggi: un allevatore, un barcarolo, un uomo della resistenza, un «tellinaro», e l’uomo che preserva la biodiversità del luogo. Il martedi e il venerdi di Silvia Bellotti, romanzo kafkiano. Si pensa a Bourroughs, a Melville e all’esempio di Wiseman. Quasi 100 ore di girato in un anno e mezzo, a partire dallo IACP, Istituto Assegnazioni Case Popolari. Esplorare un luogo e raccontare l’altra faccia della burocrazia, quella che lascia insinuare il fattore umano e immette l’informale e l’imprevedibile dei rapporti tra utenti e funzionari, dentro le regole, in modo da farle saltare con la creatività. La regista, romana, formazione di architetto, si è insinuata nei meandri, nelle maglie dell’ufficio facendo incontri impensati e bellissimi, come quello con una donna delle pulizie bengalese. Appunti sulla mia famiglia di Caterina Biasucci, romanzo familiare. Si pensa alla Ginzburg, alla Morante. Lei, figlia di un grande fotografo, nel film è sola e ubiqua, ma anche «auto-ritratta» , proprio nel senso del «ri-trarsi», dell’apparire nascondendosi, di sbieco, di riflesso, rendendo universale il personale. Scoprendo una memoria sconosciuta nei piccoli video di famiglia, che scompigliano l’identità, che sono l’incontro con un altro da sé dove, come per il «perturbante» freudiano, è custodito il più intimo e familiare sé. Non può essere sempre estate di Sabrina Iannucci e Margherita Panizon, romanzo di formazione. Si pensa a Goethe, a Gautier. Vocazione e prime esperienze teatrali, come Meister, e un amico diciottenne che si toglie la vita, come Werther, e l’esigenza di restituirgli un afflato positivo. Un film sull’adolescenza raccontata attraverso il teatro. Hanno incontrato i Maestri di Strada e sono capitate in un laboratorio della periferia est, S.Giovanni a Teduccio, dove Nicola Laieta fa riconoscere i ragazzi nel giovane «mariolo» redento De Pretore Vincenzo di De Filippo. E i ragazzi improvvisano, recitano vivendo, una di loro ha un nome fiabesco: Chiara Stella. Improvvisare la vita, recitarla sembra dire che la finzione può essere un realtà più reale, e che in teatro «si vive bene quello che nella vita si recita male». Così diceva Eduardo. L’estate, come l’adolescenza, può essere una breve stagione, non durare per sempre, ma poi ritorna, come in un film o sulla scena: si ripete qualcosa, ma è sempre diverso, si cresce. E questi giovani registi crescono, dai loro gesti e sguardi si diffonde una luce aurorale. Un’alba napoletana.

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