Il rogo tossico del biologico
Reportage La Eurocompost produceva concime bio. Sequestrata, razziata e bruciata, nell’incendio si è formata una nuvola tossica. L’oncologo Marfella: «In un ventennio qui l’aspettativa di vita si è ridotta di due anni»
Reportage La Eurocompost produceva concime bio. Sequestrata, razziata e bruciata, nell’incendio si è formata una nuvola tossica. L’oncologo Marfella: «In un ventennio qui l’aspettativa di vita si è ridotta di due anni»
Uno pensa di averle viste tutte, dopo aver visitato una decina di discariche abusive tutte più o meno simili. Invece non è così. Nella Terra dei fuochi il bubbone dei rifiuti di un sistema «malato e marcio» emerge come un’escrescenza maligna, e può rispuntare anche dove meno te l’aspetti. Così è accaduto che l’incendio che ha appestato la cittadina di Orta di Atella, il 30 agosto scorso, ha svelato il vero volto di un’azienda che si nascondeva dietro l’abito del «biologico». L’edificio bruciato della Eurocompost – questo il nome della fabbrica di concimi bio – oggi appare come bombardato, letteralmente fatto a pezzi. Sulla facciata e su un altro muro delle scritte con lo spray rosso: «Area contaminata, vietato entrare». «L’hanno fatta i vigili urbani», come graffitisti qualsiasi, mi dice Enzo Tosti, l’operatore sociale entomologo della monnezza che mi accompagna nel viaggio in quell’area tra il napoletano e il casertano che il pentito Carmine Schiavone ha definito «pattumiera d’Europa». «Quando l’hanno sigillata, qui c’era un cancello d’ingresso e non si poteva entrare». Ora non c’è più nulla: è stato tutto smontato, demolito, divelto, spaccato. Non una porta, una finestra, una lampadina, un accessorio per il water, le ringhiere dei balconi. Solo le quattro mura. Chi sia stato ad appiccare il fuoco probabilmente non si saprà mai, ma quel che è certo è che nel periodo precedente, nonostante l’area fosse sotto sequestro, qualcuno aveva provveduto a smontare la fabbrica: in barba al curatore fallimentare, si sono volatilizzati macchinari che pesavano tonnellate.
Il giorno dell’incendio, raccontano i testimoni, le fiamme si vedevano a chilometri di distanza e un nuvolone nero stazionava sull’area. Bruciarono cumuli di plastica e i materiali della lavorazione stoccati all’interno, ad appestare l’aria finirono solventi e additivi chimici. Tra le migliaia di roghi della Terra dei fuochi, questo rimane sicuramente il più memorabile. L’Eurocompost era stata aperta con fondi comunitari e doveva produrre concime organico biologico di origine animale, con tanto di certificazione europea di qualità Iso 9002. Sulle buste da cinque chilogrammi scampate chissà come al rogo si legge: «Non contiene conservanti, non contiene additivi chimici, biologicamente attivo». Nemmeno gli ignoti razziatori che l’hanno devastata indisturbati hanno però osato smuovere quel che si trova in un capannone: una montagna di rifiuti di vario genere, accumulati uno sull’altro e abbandonati lì dal 2009, quando lo stabilimento fu chiuso. La domanda che si sono posti i comitati di cittadini che si battono contro il «biocidio» – come definiscono questo scempio contro la natura e la salute – è legittima: se il compost si fa con rifiuti organici, cosa ci facevano lì dentro le sostanze tossiche che sono andate in fumo? Quali misteri si nascondevano in questa fabbrica? Ci sarebbe da aggiungere: chi pagherà la bonifica, se mai ci sarà?
L’area è incustodita ed entrarvi è un gioco da ragazzi, basta un piccolo atto di disobbedienza giornalistica a fin di racconto. Non sfuggiamo solo all’immancabile contadino di passaggio che inchioda il camioncino e intona la già ascoltata invettiva contro i giornalisti: «Ci state distruggendo, parlate solo male di questi posti e nessuno compra più i nostri prodotti». La questione è la solita: intorno alla «fabbrica della puzza», com’era soprannominata l’Eurocompost, ci sono campi coltivati, e gli agricoltori si sentono penalizzati dalle campagne mediatiche.
«I contadini non possono avere la botte piena e la moglie avvelenata», risponde alle lamentazioni con un’efficace allegoria il dottor Antonio Marfella. Oncologo all’ospedale Pascale di Napoli, Marfella è convinto che non ci sia altra strada che la «riconversione dei terreni contaminati». Per il medico napoletano è impossibile continuare a coltivare su campi che risultassero inquinati. Pena l’ulteriore abbassamento della vita media. Il quadro che il dottor Marfella traccia è inquietante: «Negli ultimi vent’anni in Campania l’aspettativa di vita si è ridotta di due anni». Se si considera che la media è calcolata su tutta la popolazione campana – sei milioni di abitanti – ma l’aumento della mortalità riguarda essenzialmente le province di Napoli e Caserta si capisce come da queste parti si viva ancor meno. È una conferma alla profezia di Schiavone, datata 1997: «In vent’anni moriranno tutti di cancro».
«Eravamo la regione della dieta mediterranea e oggi viviamo meno degli altri», dice Marfella, convinto che l’emergenza rifiuti di qualche anno fa sia servita solo a stendere una cortina fumogena sugli sversamenti di scorie industriali. E ora che è finita, con le navi che portano la monnezza in Olanda – a un costo minore che nel vicino inceneritore di Acerra – emerge finalmente la verità, visibile a occhio nudo se solo ci si premura di analizzare una discarica abusiva: sotto quei sacchetti della spazzatura cittadina esiste un sistema ben oliato di smaltimento dell’industria del falso, almeno nella Terra dei fuochi. Sono gli scarti dell’evasione fiscale, di quelle aziende che sfuggono a qualsiasi censimento, ma anche delle griffe che parcellizzano il lavoro mandando ad assemblare qui i loro prodotti. Poco più a nord, invece, nella vicina Terra dei veleni, mentre si accusavano i partenopei di fare poca raccolta differenziata e i residui organici si accumulavano nelle strade, i tir della camorra scaricavano bidoni con ben altro genere di sostanze, li interravano e poi ripartivano in direzione nord Italia.
C’è una punta di amarezza nelle parole di Marfella. Possibile che in vent’anni nessuno abbia mosso un dito mentre accadeva questo scempio? I politici innanzitutto, ma anche gli agricoltori che si vedevano sversare di tutto nei terreni, gli imprenditori. «Sono tutti colpevoli, compresi gli epidemiologi che hanno messo il silenziatore a quanto stava accadendo», conclude Marfella. Smontare una fabbrica, per giunta sotto sequestro come l’Eurocompost, non è un’operazione che si compie senza dare troppo nell’occhio. Ora è troppo tardi per rimediare, forse. O forse no. Ci vorrebbe una sorta di Piano Marshall per la bonifica di questi territori, sostengono i comitati contro il «biocidio».
Mentre cerco di rimettere in ordine il materiale raccolto per questo articolo ricevo una telefonata. È l’ex sindaco di Aversa Lello Ferrara, storico esponente della sinistra nel casertano. Mi chiama per dirmi che non tutti sono stati zitti, nel buio della politica campana a cavallo tra un millennio e l’altro: nel ’98, ricorda, 28 sindaci incontrarono l’allora ministro dell’Interno Giorgio Napolitano e quello dell’Ambiente Edo Ronchi. La Commissione d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti presieduta dal verde Massimo Scalia aveva individuato 46 discariche. «Il 22 luglio di quell’anno, alle 2 di notte, noi sindaci abbiamo firmato un protocollo d’intesa per la bonifica immediata», e ad agosto un decreto della presidenza del Consiglio stanziò 800 milioni di lire. Ma a ottobre il governo Prodi cadde, arrivò D’Alema e la bonifica cadde nel dimenticatoio. Nel maggio 2000 Antonio Bassolino fu eletto presidente della Regione Campania e nominato commissario straordinario all’emergenza rifiuti. Il resto della storia la conoscono tutti.
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