Il ritorno dello Stato sociale? Teniamo alta la guardia
Non è certo ancor giunto il momento di fare bilanci, ma che questa epidemia avrà effetti pesanti è già chiaro da tempo. Il primo effetto, sanitario, è che con quei […]
Non è certo ancor giunto il momento di fare bilanci, ma che questa epidemia avrà effetti pesanti è già chiaro da tempo. Il primo effetto, sanitario, è che con quei […]
Non è certo ancor giunto il momento di fare bilanci, ma che questa epidemia avrà effetti pesanti è già chiaro da tempo.
Il primo effetto, sanitario, è che con quei più di centomila contagiati ancora attivi, se le proporzioni si manterranno i caduti per Covid-19 saranno alla fine almeno 60 mila, un unicum.
Il secondo effetto – su cui pare esserci consenso – sarà che torneremo ad investire in sanità, dalle infrastrutture al personale, e non solo per pagare il triste prezzo degli operatori venuti a mancare e sostituirli, ma perché si è capito quanto importante sia avere un sistema sanitario attrezzato, dislocato sul territorio e non solo concentrato sugli ospedali, in grado di adattarsi ai bisogni nel loro dispiegarsi.
Il terzo effetto, il più macroscopico e duraturo, sarà quello economico e sociale, per le ricadute indirette dell’epidemia. Che il lockdown fosse necessario è fuori discussione. Certo, non aver «aggredito» l’epidemia per tempo ne ha facilitato la diffusione. L’averlo fatto in modo scomposto – mancata dotazione del personale sanitario delle protezioni necessarie, mancato isolamento delle Rsa – ha poi peggiorato i suoi effetti. Ma il confino domestico imposto a milioni di italiani è servito.
Questo, tuttavia, ha bloccato anche milioni di imprese e attività economiche, privato milioni di persone del loro reddito quotidiano, aggravando le condizioni di molte famiglie. Un crollo dell’offerta accompagnato da un crollo della domanda, i cui effetti si fanno già sentire.
E chi sarà a pagarne di più le spese? I meno protetti, ovviamente: le imprese familiari, i 5 milioni di lavoratori autonomi e in partita Iva, i 3 milioni di lavoratori precari. Per i quali i rischi di uno scivolamento ulteriore verso il basso nella scala del reddito sono sempre più concreti.
L’Italia disuguale, già provata più di altri paesi europei dal divario sociale e territoriale, rischia di uscire ancor più divisa. Ai 5 milioni di poveri che già avevamo se ne aggiungeranno altri 10, si stima. E una generazione rischia di venire segnata per sempre: quella dei trenta-quarantenni.
Quelli che avevano vent’anni nella crisi del 2008 e che uscivano da una lunghissima apnea nell’Italia delle classi sociali immobili e che ora dovranno provare a non annegare. «They were straggling, now they will be struggling». Erano rimasti indietro, ora dovranno lottare per non restare ancora più indietro. Eppure, si sente parlare di ricostruzione, di solidarietà, di Piano Marshall. Per una volta, al di là delle divergenze sugli strumenti, sembra improvvisamente condivisa l’idea che lo Stato – e le istituzioni sovra-nazionali – debbano intervenire incondizionatamente. L’Economist e i pensatori liberal già paventano che si torni all’idea che lo Stato spenda, intervenga e provveda, chiedendosi se poi un giorno sapremo tornare indietro.
Dunque, la social-democrazia classica torna in auge? Non il comunismo baluginato da Zizek, certo, ma comunque quel mix di intervento pubblico e iniziativa privata per sostenere i più deboli per non lasciarli indietro e da cui i più forti possano comunque trarre beneficio. È questo uno degli effetti che avrà portato la più devastante epidemia dell’era moderna?
Certo, ora viene da chiedersi cos’ha di diverso questa recessione da quelle precedenti, dopo il 1945. Se dopo i «trenta anni gloriosi» del boom economico le disuguaglianze di reddito erano tornate ad aumentare, le crisi erano sempre state riassorbite, finché non ne arrivò una più pesante, nel 2008, che fece tremare le fondamenta del sistema, senza però metterlo in discussione, e che, a conti fatti, pagarono i più deboli.
Ma, questa volta è diverso, si dice. Oggi sembra non esserci esitazione sul fatto che i meno attrezzati andranno aiutati, che contenere il debito non è la priorità, che i vincoli di bilanci valgono zero «di fronte all’emergenza». Forse che aveva un senso strozzare la Grecia, attenersi al verbo dell’austerity 12 anni fa, solo perché giornalmente contiamo i morti? Eppure, si rischiò di morire per fame, disoccupazione, mancanza di servizi e assistenza sociale. Lo story-telling dell’emergenza ci racconta che oggi tutto questo è possibile, che ciò che molti di noi avevano chiesto per anni – più Stato efficiente e meno mercato sregolato, una «nuova economia» – è oggi non solo giusto ma necessario. Ci sarà da fidarsi? Teniamo alta la guardia.
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