Cultura

Il ritmo di un diario ininterrotto

Il ritmo di un diario ininterrottoPhilippe Jaccottet

Philippe Jaccottet La scomparsa, a 95 anni, del poeta, scrittore e critico letterario di origini svizzere, raro caso fra i viventi ad essere incluso con le «Oevres» nella collana della Pléiade

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 26 febbraio 2021

Con la stessa discrezione con cui è sempre vissuto, mercoledì scorso a Grignan, un villaggio nel sud della Francia, è scomparso uno dei grandi poeti del nostro tempo, Philippe Jaccottet. Tra le stelle fisse del tardo Novecento francese, se René Char testimonia lo slancio della verticale lirica, se Edmond Jabès mantiene per sé stesso il riserbo sapienziale e se infine Yves Bonnefoy si misura con una materia di consistenza siderale, per parte sua Jaccottet si affida a un verso che resti alla portata del lettore, nel senso che venga scandito al ritmo della sua fisica percezione mentre quelli che nella mente del poeta è ipotizzabile nascessero come esatti versi alessandrini non appena affidati alla pagina assecondano il ritmo convergente dello sguardo e del respiro, configurandosi non più come stampi metrici ma come vibrazioni ritmiche e, oramai, puramente prosodiche.

A CHI CHIEDESSE quali sono i contenuti della poesia di Philippe Jaccottet si dovrebbe infatti rispondere che in quanto tali non esistono (non esistono in quanto specifici o predeterminati) ma corrispondono alla ritmica interna del vivere e, appunto, del percepire: sono sempre dei coaguli o delle istantanee, i suoi testi, un diario ininterrotto in cui entrano la luce incerta di una giornata caliginosa, una macchia improvvisa del sottobosco, i suoni e il fumo che annunciano la prossimità di esseri umani, i quali si avvicinano nella condivisione delle occasioni più ordinarie, come un incontro per via, una pagina scritta, una lettera, un ricordo che improvviso ripiomba al presente.
Del resto, non è stata usuale la formazione di Jaccottet né il decorso della sua vicenda: di passaporto svizzero, nato a Moudon, cantone del Vaud, nel 1925, già nel 1953 approda a Grignan, nella campagna del Midi, dove sempre sarebbe vissuto con sua moglie, la pittrice Anne-Marie Haesler. Ha studiato a Losanna, ha conosciuto Parigi, presto accolto nelle edizioni della N.R.F. e perciò di Gallimard, ma soprattutto ha avuto la fortuna di incontrare un maestro esigente, il poeta Gustave Roud (poco o nulla tradotto in Italia), e presto ha deciso di vivere del mestiere più rischioso e magnanimo, la versione di poeti e prosatori, esordendo con la straordinaria impresa dell’Odissea.

PLURILINGUE, nel tempo si misura sia con i tedeschi (su tutti l’amatissimo Rilke, ma anche Musil e Mann) sia con gli italiani a partire dai più consanguinei, Leopardi e Ungaretti.
Qui non va immaginato un autore recluso in un suo spazio asfittico perché Grignan può essere per lui una protezione, un filtro opposto alla invadenza del mondo ma non un sito di diserzione, perché scegliere la sfasatura, la condizione di oggettiva marginalità, significa per lui acuire la finezza della percezione e così gli automatismi di una grande intransigenza: ad esempio, uno splendido Requiem scritto per i trucidati dal nazifascismo verrà presto espunto dalla sua opera maggiore e collocato tra i documenti personali per, a suo dire, eccesso di retorica.

IL FATTO è che Jaccottet sospetta ogni parola che si senta in dovere di andare oltre sé stessa alzando la voce, vale a dire oscurando la chiarezza del tono per rinforzare la violenza del timbro: lo confermano, in un moto esattamente circolare e inderogabile, le plaquettes e le raccolte in versi o prose ritmiche, non meno di una trentina, che gremiscono (per tacere la cospicua produzione saggistica) una bibliografia che si apre con Il Barbagianni. L’Ignorante (1953, Einaudi 1992) per chiudere di fatto con la inclusione, tra i rari viventi, nelle Oevres (édition établie par José-Flore Tappy avec Hervé Ferrrage, Doris Jacubec et Jean–Marc Sourdillon, Gallimard 2014) della prestigiosissima collana della «Pléiade». E Jaccottet ha scelto per l’introduzione giusto la sua voce italiana, quella d’uno dei nostri maggiori poeti, Fabio Pusterla, della cui limpidezza testimoniano ad apertura di pagina già i versi de Il Barbagianni: «Sembra irreale in marzo la chiarezza/ di questi boschi, insiste appena, tanto tutto è fresco./ Gli uccelli sono scarsi e dentro il ceduo/ distante, che rischiara il biancospino,/ giusto canta il cucù. Fumate scintillanti/ portano in alto quel che è bruciato/ di un giorno. La foglia morta serve le viventi/ ghirlande, e per i sentieri più impervi, se li segui/ tra i rovi, giungi al nido dell’anemone,/chiara e comune come la stella del mattino».

IL SEGNO di Jaccottet non è inciso ma deposto sul foglio e il suo stesso consistere prima che alla voce si deve alla entità del soffio, al respiro, mentre sua esclusiva ambizione è mantenere sempre la naturalezza. E tuttavia non basta perché Jaccottet, ignorando gli eventi e i nomi propri della Storia, si affida al moto profondo della Natura: le sue poesie sono «politiche» quali possono esserlo, parlando di alberi e fiori, le poesie del Brecht lirico e del nostro grande Fortini, un cui verso celeberrimo, severamente ammonitorio, ci ricorda che «la natura per imitare le battaglie è troppo debole». Non si tratta appunto di «imitare» ma, al contrario, di metabolizzarne la violenza squassante traducendola in geroglifico (Storia confitta nella Natura come un insetto nell’ambra) per ritrovarla entro la venatura di un foglia, nel colore cangiante di una pianta, perché quelle di Jaccottet sono in sostanza allegorie ma liberate dalla pésanteur, dal sovraccarico che è invece tipico delle allegorie.
Ecco in un altro dei testi maggiori, Edera e calce, ancora nella versione di Pusterla, quando il destino di un incognito, anonimo vecchio, si lega all’ostinata traccia della pianta rampicante: «Dentro quella finestra imbiancata di calce,/ (contro le mosche, i fantasmi),/ si sporge la testa canuta di un vecchio/ / Scura, l’edera cresce contro il muro.// Serbatelo, edera e calce, dal vento dell’alba,/ dalle notti troppo lunghe, e dall’altra, l’eterna».

JACCOTTET TORNA sempre sui suoi passi e sull’eterno palinsesto del vivere la vita pensandola attimo per attimo, allineando particole di tempo come fossero i reperti polverosi del pittore prediletto, Giorgio Morandi, cui ha dedicato uno dei suoi saggi più smaglianti, La ciotola del pellegrino (Casagrande 2007) che è anche una dichiarazione di poetica. Ciò produce presto l’effetto di familiarità che conoscono non solo i lettori ma gli altri e notevoli traduttori di Jaccottet, per esempio Antonella Anedda (Appunti per una semina, Fondazione Piazzolla 1994), Gianluca Manzi (L’oscurità, Fazi 1998) e Albino Crovetto che firma con Ida Merello la versione recentissima del piccolo zibaldone intitolato Quegli ultimi rumori… (Crocetti 2021): quanto a Fabio Pusterla, a lui non soltanto si deve il doppiaggio di una quantità di versi e prose (fra cui Paesaggi con figure assenti, Dadò 1996; Alla luce d’inverno, Marcos y Marcos ’97; E, tuttavia – Note dal botro, ivi 2006) ma un bellissimo libro di riflessioni sul maestro di Grignan, Il nido dell’anemone, Edizioni d’If, Napoli 2015).

CHI HA AVUTO LA VENTURA di incontrarlo non può non ricordarne il tratto gentile e la riservatezza di una persona spiritualmente aristocratica che sapeva essere cordiale, disponibile, senza alcuna demagogia. Venne in Italia forse un’ultima volta nel luglio del ’95, invitato dal poeta Francesco Scarabicchi in Ancona per una lettura del ciclo «Poesia in giardino», nella bellissima terrazza del Museo archeologico a picco sul porto.
Già settantenne, era reduce da otto ore di viaggio eppure scese come niente fosse dal treno, elegante nell’abito di lino color sabbia quale potrebbe esserlo, disse allora qualcuno, un ex campione di tennis australiano. Confessò che era stato a Recanati per la prima volta nel ’46, fra le macerie della guerra, e che aveva proseguito per Napoli in laico pellegrinaggio sulle estreme tracce di Leopardi: la sera, con l’ausilio di Pusterla, lesse i testi ancora inediti di Edera e calce e il pubblico non tardò a comprendere che Philippe Jaccottet somigliava veramente alla sua poesia.

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