Visioni

Il ritmo della pellicola, nuove geografie dell’immaginazione

Il ritmo della pellicola, nuove geografie dell’immaginazione

Cinema e musica A Reggio Emilia il 9 giugno «The Last Command» di Josef von Sternberg musicato dal vivo dai Julie’s Haircut

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 7 giugno 2019

Nel pullulare di non senso o, peggio, abumanità di questa primavera mancata, mentre si consumava l’ennesima pantomima elettorale declinata all’italiana, con lo sguaiato, scatologico trionfo leghista, il 31 maggio appena trascorso rappresentava un’efflorescenza, una soglia immaginifica attraverso cui poter guardare a un’altra versione di mondo, un’altra misurazione dello spazio. Almeno due straordinari esempi di space-rock, appunto riverbalizzazione, reinvenzione topografica: MU! degli Gnoomes, tra kraut e shoegaze, fino a spaesamenti in nebulose, in pioggie di techno-astri – pubblicato per la Rocket Recording, già da tempo punto di riferimento per la psichedelia, lo shoegaze, l’elettronica – e Music From The Last Command dei Julie’s Haircut (42 Records), che del resto hanno seguito di poco l’ultimo, estatico disco dei Papir e il ritorno krauterizzato degli Oscillation. E poi Smith dei Winstons che continuano il loro percorso tra prog e psichedelia in eco beatlesiana, in una commistione forse più afferrabile di quella offerta dai Claypool Lennon Delirium.

INSOMMA l’edificazione di nuove geografie dell’immaginazione, nuove possibilità di senso, attraverso la musica – ma investendo, anche accidentalmente, gli spazi cinematografici, tornando ad essi, perché è plausibile che all’origine dell’immagine ci sia un suono – e, all’interno di questa vasta possibilità di espressione, una tensione alla dilatazione (fino al dileguamento) e connotazione dei territori sonori, a cui negli ultimi tempi hanno contribuito band italiane troppo spesso messe in secondo piano rispetto a quelle straniere: i Calibro 35 con le sue diramazioni nei Winstons appunto e negli I Hate My Village (tra afro-beat e prog), il duo siciliano dei Lay Llama, senza dimenticare in ambito specificamente prog Gli ingranaggi della valle e i London Underground con il loro ultimo Four in cui svetta il carpenteriano At Home.

Ma sono i Julie’s Haircut, dall’Emilia – soprattutto con quello che forse resta il loro capolavoro, l’elastica fenomenologia ellettro-kraut di Esharam Equinox – ad aver inciso maggiormente negli ultimi anni all’interno del panorama internazionale dello space-rock, intendendo con questo termine un ecosistema esteso, diversificato di soluzioni e stili, che comprende le ruvide, distorte barriere dello stoner, così come liquefazioni, svaporamenti, smemoramenti aquei, come quelli di Invocation And Ritual Dance Of My Demon Twin e di quest’ultimo, magnifico Music From The Last Command: musiche per il film di Josef Von Sternberg conosciuto in Italia con il titolo di Crepuscolo di gloria (1928), commissionate dal Museo del Cinema di Torino e dalla rassegna musicale trentina Transiti, che verranno eseguite in una prima proiezione a Reggio Emilia il 9 giugno, a chiusura della mostra «Fotografia Europea».

Qualcosa che testimonia e porta a coronamento una naturale predisposizione dei Julie’s verso il cinema; un’ingiunzione della loro musica, delle loro partiture, a perdersi nello spazio delle immagini, nell’habitat chiaruscurale definito da luci e ombre che in questo caso provengono da Stroheim, principale referente di Von Sternberg nel momento di mettere su il palinsesto crudele e struggente di The Last Command, con tutto il suo corollario pirandelliano e metacinematografico, di personaggi in cerca di parti, turbe ghignanti, fantasmi esangui, evanescenti che calcano lo spazio senza tempo della pellicola.

I JULIE’S li suscitano attraverso una nenia elementare, come un sortilegio strisciante, sorto dal (il titolo del disco recita «from the» non «for the») nero sorgivo dello schermo, dal baratro – già insidiato dalla luce – preesistente all’insorgere del film: Prisoner of Love, che apre il disco (e alla fine lo chiude) e dà corpo al generale Alexandr, a Leo Andreiev, il regista; all’attrice Natacha Dabrova che si ritroverà più di una volta a recitare pur di salvare il generale dal linciaggio. Una recitazione al quadrato allora, e un cortocircuito intorno all’identità del personaggio e alla sua realtà d’azione, tra i più efficaci e spiazzanti della storia del cinema, avvio dei tanti cortocircuiti a venire (per un avvenire, anche in senso politico, dentro l’economia dell’immagine), da quelli più classici e normativi come Effetto notte, fino a declinazioni metacinematografiche più vertiginose, come nel Disprezzo di Godard arrivando almeno al Cut di Naderi e a Road To Nowhere di Monte Hellman, passando per il primo Angelopoulos, per l’Erice del Sole della mela cotogna, ecc..

Ed è dentro questa vergine che si muovono i Julie’s Haircut, nell’illusione concreta di dare carne alle cose, figurare spazi che respirino, attraverso l’astrazione e il movimento nel tempo connaturati alla musica. E allora il Crepuscolo di gloria si risveglia, torna a vivere, fuori dalle pastoie mucide degli archivi e dalle edizioni in dvd – pure virtuose, ma musicalmente anodine – le immagini s’incarnano, trasudano attraverso i pori della pellicola, e si tirano fuori dall’inerzia del loro tempo brulicando di un’attualità lucente, sonante.

«SE L’OTTONE si risveglia tromba, non è affatto colpa sua. Questo mi appare evidente: io assisto allo schiudersi del mio pensiero: lo guardo, lo ascolto: do un colpo d’archetto: la sinfonia si muove nel profondo, oppure arriva d’un balzo sulla scena» (Rimbaud), che dice di questo sogno di una cosa, del farsi carne di luce e suono e gesto, da parte delle cose; dell’illusione del transito da un linguaggio all’altro e da uno stadio di finzione all’altro (come Natacha che recita nella recita), concentricamente, creando in continuazione questo spazio transeunte, catastrofico, che è lo spazio sognato di un’arte totale, cui riflesso sembra essere il cinema, dove parola, gesto, immagine, musica convergono.

Perciò le folle che torneranno in Russia 1917, in Parade, in The Passion of Alexandr, già in Dress Rehearsals premono di mormorii, di voci fantasmatiche addosso, accordi che si trafelano di tastiera, mentre Make up è la presa di carne, di volto, maschera pallida dello struggimento, mostrato da piano e sassofono in effusione, che poi sarà luogo torbido, in chiave di Lynch-Badalamenti, dopo lirico, dell’intesa tra Alexandr e Natacha (Romancing the Gun), quando un pallore, una frase languida di sax prefigurerà la mancanza senza rimedio di lei, e la morte di qualcosa come un personaggio.

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