Il ritmo della macchina da cucire
Danza In scena a Bolzano «Made in Bangladesh» di Helena Waldmann, la fabbrica ai tempi della globalizzazione.Nella rassegna anche «Inked» del performer indiano Aakash Odedra, una ricerca a partire dal tatuaggio
Danza In scena a Bolzano «Made in Bangladesh» di Helena Waldmann, la fabbrica ai tempi della globalizzazione.Nella rassegna anche «Inked» del performer indiano Aakash Odedra, una ricerca a partire dal tatuaggio
Inseguiti per ben due anni, Emanuele Masi, direttore di Bolzano Danza, era riuscito ad averli a Bolzano per un incontro col pubblico al termine di Made in Bangladesh di Helena Waldmann. Oltre alla coreografa tedesca globetrotter (nel senso che costruisce e crea i suoi spettacoli in giro per il mondo), l’autrice di questa pièce che contamina la danza classica indiana kathak (deriva dalle parole in sanscrito, katha = storia e kattaka = narratore di storie), c’erano il co-coreografo Vikram Iyengar e i magnifici interpreti, donne e uomini provenienti dal Bangladesh, esperti di questa danza originaria dell’India del nord, un tempo sacra e oggi espressione artistica di forte astrazione in movimenti e ritmo. E c’era anche il performer anglo-indiano, Aakash Odedra, visto la sera prima nel dittico Inked (coreografo il franco-belga Damien Jalet) e Murmur 2.0 (a firma dello stesso Odedra con l’australiano Lewis Major).
Nato a Birmingham, il giovane Aakash aveva studiato le danze delle proprie radici culturali per creare nuove forme contemporanee. Inked narra l’arte del tatuaggio. Racconta Odedra: «Mia nonna ne aveva, era usanza tra le donne indiane e ricordo che sul suo letto di morte le tenevo stretta la mano coloratissima. Un’ immagine che mi è rimasta impressa, tanto da chiedere al coreografo di creare la pièce a partire da lì per indagare le ragioni che spingono ancora oggi le persone a tatuarsi».
Spiega che nella fase di elaborazione si era inserita la dimensione fisica del passaggio tra vita e morte, simboleggiato in scena dal segno dell’infinito sull’enorme foglio bianco quadrato che fa da pavimento e da scena. Dai movimenti iniziali, a tratti ironicamente stilizzati e alternati ad altri sensualmente sentiti, l’artista-performer va pian piano identificandosi in quel passaggio spirituale tra aldiqua e aldilà, tracciandolo col corpo a terra.
Un enorme disegno grafico astratto: ecco cosa rimane come unica presenza concreta una volta che lui è uscito di scena. Per Murmur 2.0 si aiut con un cerchio formato da una ventina di ventilatori da tavolo in metallo, per compiere al suo interno la performance dedicata alla sua dislessia. Un altro elemento autobiografico: «Mi ero accorto di aver creduto per anni di chiamarmi Akash, con una ‘a’, finché ho scoperto che si scrive con due, e da lì mi fu diagnosticata la dislessia. Nella pièce esprimo l’altra intelligenza rispetto a quella solita accettata nella cultura della scrittura e lettura, quella emotivo-corporea».
E di questa c’è di tutto nell’affascinante interazione tra movimenti e scena visuale virtuale (creata dal Futurlab Ars Electronica) disinnescando una miriade di effetti per immagini (quasi) viventi all’insegna dei tableaux vivants in voga nella body-art degli anni ’60/’70. Il vortice di corpi materiali e immateriali trasmuta in modo esplosivo nella più profonda catarsi di silenzio visivo e sonoro.
Di tutt’altro impianto è il pezzo firmato da Helena Waldmann, il succitato Made in Bangladesh, una feroce critica dello sfruttamento nelle fabbriche a basso costo di produzione. Si parte in una fabbrica tessile nel Bangladesh, sul video proiettato sullo sfondo leggiamo data e ora in cui le donne che entrano per iniziare il turno al secondo piano nel reparto cucito sono state filmate. Nel giro di soli sessanta secondi appaiono al contempo, una dopo l’altra, in carne e ossa sul palco allineandosi frontalmente al pubblico. I piedi battono il ritmo e sullo schermo inizia una sinfonia visiva creata dagli aghi delle macchine da cucire che scendono e risalgono sempre più veloci: uno due, quattro otto, fino a farsi sempre più numerosi. Tanto da ricordare le sinfonie visive dei primi film astratti degli anni venti in Germania.
«Contratto firmato, a meno soldi del mese scorso» recita la voce metallica. Ora danzatrici e danzatori si allineano in modo verticale rispetto al pubblico per «ballare» le cuciture. «Target non raggiunto, niente pranzo!», annuncia l’altoparlante. «100 capi all’ora!». Sullo sfondo girano veloci dei come dei contatori: 13/12/13/11/ ecc.
Gesti meccanici visualizzano l’ottimizzazione e viene in mente Tempi moderni di Chaplin, qui in chiave di teatro-danza contemporaneo sullo sfruttamento generale di chi lavora, oggi, nel mondo intero. Quanto guadagna un operaio in queste fabbriche nei paesi cosiddetti in via di sviluppo?, si legge sullo schermo. 0.12 euro all’ora. E a quanto ammonta il guadagno dalle vendite degli stessi capi nei paesi cosiddetti sviluppati, qui la Germania? 500mila euro. Stop. Il fermo immagine di una fabbrica crollata si dissolve con la foto di una coppia morta nelle macerie, abbracciata. Altra esplosione. Sullo sfondo c’è la foto in bianco e nero di un edificio crollato. La musica si compone di sirene, clacson, motori di macchine, mentre sul palco si danza il caos dei soccorsi tra vivi e morti, mutando nell’espressione con gesti stupendamente coreografati la rabbia, l’alienazione, la frustrazione fino a uscire, una dopo l’altra o dopo l’altro di scena. Rimane una donna sul palco, in silenzio. Sullo sfondo si legge a grandi lettere: «Don’t boycott our products!».
Cambio scena, cambio costumi: ora si entra nell’art industry! I danzatori tornano in scena: un uomo controlla i piedi, i gesti con braccia e mani passano da un ballerino all’altro, ripetendo: «Contratto firmato, prove non pagate, cachet fisso per un tot di spettacoli, allenarsi molto, qualità». Ripartono le sequenze, le stesse di prima: si lavora in un’altra fabbrica, pagate come volontarie, dove la box office lady guadagna di più. «Certo, siamo artisti, felici…!».
Sul finale l’immagine di un ballerino-bambino che dopo una serie di giravolte cade – sfinito. Schermo nero. Nel buio spiccano alcune cifre in un bianco luminoso ma anche per il loro significato: 1.08,30 …, ossia da inizio spettacolo sono passati un’ora, otto minuti e trenta secondi, e in un simile frattempo un operaio delle nostre fabbriche ha guadagnato 0.34 euro, in Germania i profitti sono saliti a 1.400mila euro.
I danzatori fermi con mano alla gola in seguno di condannati scandiscono le parole: «We are all/siamo tutti…». Buio. Sullo schermo nero appare il marchio stampato con la scritta rosso-sangue: Made in Bangladesh!
Spiega Helena Waldmann:«Ho fortemente voluto la comparazione tra fabbrica e mondo dello spettacolo occidente incluso. Si parla tanto di commercio solidale, di turismo responsabile, ma l’universo delle arti in che stato è?». La pièce si basa su tante interviste fatte da lei e su incontri con le operaie di una fabbrica. Il resto è esperienza vissuta in diretta, sul campo, nel mondo delle arti.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento