Cultura

Il rischio nella società complessa, oltre gli spot tv

Il rischio nella società complessa, oltre gli spot tv

Scaffale Intorno al libro «La comunicazione nelle emergenze sanitarie», di autori vari (tre addetti ai lavori in questo campo), per la editrice Il pensiero scientifico

Pubblicato circa un anno faEdizione del 2 agosto 2023

Nell’emergenza permanente, dalla pandemia alla guerra e poi alla crisi climatica, la comunicazione del rischio non è un’attività collaterale ma un fattore stesso dell’emergenza. Una cosa, infatti, è avvertire di un rischio localizzato, che riguarda un tempo e un luogo definiti e magari solo un gruppo sociale. Altra è avere a che fare con pericoli che investono la società intera e che mutano lo scenario in modo permanente, come gli esempi fatti all’inizio. In questa condizione non è permesso improvvisare e la comunicazione del rischio va pianificata in anticipo – possibilmente quando l’emergenza ancora non si è palesata – da parte di tutti i soggetti coinvolti: istituzioni, media, società civile.
Risulta utile a questo scopo un volume appena uscito per la casa editrice Il Pensiero Scientifico. Si intitola La comunicazione nelle emergenze sanitarie (pp. 176, euro 20) ma gran parte del suo contenuto si può traslare su tematiche diverse dalla salute.

IL LIBRO È SCRITTO da chi si è dovuto misurare in prima persona con il problema: gli autori sono infatti Cesare Buquicchio, Cristiana Pulcinelli e Diana Romersi (presentazione di Elena Savoia e prefazione di Caterina Rizzo). In particolare, Buquicchio e Romersi sono stati rispettivamente capo-ufficio stampa e consulente del misnistero della Salute nel triennio 2020-2022 in cui la comunicazione è stata monopolizzata dalla lotta al virus: un crash test senza precedenti per ogni teoria della comunicazione del rischio, che ha finito per distruggere molte verità acquisite.
La prima riguarda appunto la direzionalità della comunicazione. Si tende a pensare che a dare informazioni su una minaccia sociale siano sempre e comunque le istituzioni verso i cittadini inconsapevoli.
Ma è un modello inadeguato alla complessità dell’agire sociale odierno, in cui le istituzioni hanno perso l’autorità e l’autorevolezza. «Secondo alcuni modelli suggestivi si è passati da un modello Dad – decide, announce, defend, come spiegano gli autori – a un modello Son (…) che starebbe per share, open, negotiate, cioè ’condividi, apriti e negozia’».

LA COMUNICAZIONE del rischio non può dunque limitarsi agli annunci e agli spot tv, ma deve innescare un processo orizzontale di discussione e coinvolgimento di tutti i soggetti sociali. È opinione comune, per esempio, che la drammatica esperienza del lockdown del 2020 sarebbe difficilmente ripetibile in caso di nuova emergenza, e certo non basterebbero le conferenze stampa notturne di un premier a indirizzare l’autodifesa del corpo sociale nei confronti della minaccia. Anche perché il «rischio» non significa per tutti la stessa cosa. «In quanto possibilità percepita, è interpretato all’interno di una cornice culturale ed esperienziale diversa in base a fattori quali l’età, il genere, la classe sociale e il sistema valoriale, solo per citarne alcuni», scrivono gli autori. Un messaggio univoco che non ne tenga conto potrebbe generare più confusione che consapevolezza.
Tra i luoghi comuni demoliti dalla pandemia c’è anche la tesi secondo cui le persone che esitano di fronte ai vaccini si assomiglino tutte. Invece, «tra i più scettici sono risultati le donne in Francia e negli Stati Uniti, ma non in Italia, e i giovani fino a 23 anni in Paesi come il Giappone, la Corea del Sud e la Germania. In Italia, invece, gli scettici si concentravano soprattutto nella fascia di popolazione con un reddito familiare più basso».

IN UN SIMILE caleidoscopio, comunicare l’incertezza e la provvisorietà delle verità acquisite è decisivo ma durante la pandemia non sempre questo saggio consiglio è stato seguito: tanti ancora ricordano le perentorie parole del premier Draghi che parlò pubblicamente del Green Pass come «garanzia di non essere contagiati», una sicumera che al confronto con la realtà finì per discreditare lo strumento stesso.
Comunicare il rischio nella società complessa, insistono gli autori, significa innanzitutto coinvolgere la società civile e ascoltarne le tante e contraddittorie ragioni. Difficile? Certo. Ma è l’unica alternativa all’infodemia.

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