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Il riscaldamento che fa gola agli sfruttatori

Il riscaldamento che fa gola agli sfruttatori

Frozen World Il mutamento costante del clima in una zona che sta diventando sempre più calda anche dal punto di vista politico

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 22 febbraio 2014

Il mutamento climatico sta erodendo, anno dopo anno, la superficie ghiacciata che ricopre il Polo Nord. Nell’estate record del 2012, l’estensione del ghiaccio arrivava a meno di 4 milioni di chilometri quadrati, la metà di quindici anni prima. Nel 2013 è andata meglio, ma la tendenza di lungo periodo è chiara: nel giro di qualche decennio (le previsioni variano tra il 2030 e il 2050) l’Artico sarà libero dai ghiacci, almeno d’estate. È un processo che non si ferma facilmente e che, anzi, si auto-alimenta: la luce solare, non più riflessa dal ghiaccio, scalda gli oceani e ne aumenta l’evaporazione in atmosfera. Il vapore acqueo, a sua volta, è un potente gas serra e contribuisce all’aumento della temperatura e all’ulteriore scioglimento dei ghiacci. Lo stesso avverrà con la grande quantità di metano (un altro gas serra) trattenuta dal permafrost  della Groenlandia e destinata a finire in atmosfera con il riscaldamento climatico. Circoli viziosi o, come li chiamano i climatologi, «feedback positivi».

Ma la zona sta diventando sempre più calda anche sul piano geopolitico. Libero dai ghiacci, il mar glaciale Artico acquista un ruolo strategico per le vie di navigazione e per le risorse naturali nascoste sotto la banchisa. Le rotte artiche costituiscono una notevole scorciatoia tra le coste del Pacifico e l’Europa. La regione artica, inoltre, ospita rilevanti giacimenti di idrocarburi: si stima che il 13% del petrolio e il 30% del gas naturale non ancora sfruttati si trovino intorno al Polo. Oltre agli idrocarburi, i suoli artici sono ricchi in uranio e in terre rare, metalli poco conosciuti ma fondamentali per la realizzazione di dispositivi di alta tecnologia, dalla metallurgia all’elettronica. Infine, lo scioglimento dei ghiacci libera una regione di mare di grande valore economico (per l’industria della pesca e per gli idrocarburi) e naturalistico, la cui attribuzione è ancora incerta.

Queste nuove opportunità fanno gola a tanti Paesi, Cina in testa. Le navi cariche delle esportazioni cinesi che salpano dai porti di Shangai, Hong Kong e Shenzen potranno approdare a Rotterdam transitando a nord della Russia, risparmiando cinquemila chilometri di navigazione rispetto alla rotta che attraversa il Canale di Suez. Il corridoio settentrionale è stato utilizzato sin dal 2010 per tragitti più brevi, tra Scandinavia e Russia. A settembre 2013 l’ha percorso il primo bastimento commerciale cinese, impiegando 35 giorni per il viaggio – sulla rotta tradizionale ce ne vogliono 48. Bisognerà aspettare l’estate del 2014 per nuovi transiti attraverso il cosiddetto «passaggio a nord-est», ma gli economisti cinesi prevedono che nel 2020 il 15% del traffico merci con la Cina passerà di lì. Nel frattempo i paesi costieri, Russia e Norvegia, stanno attrezzando nuovi porti nella regione, destinati a fornire i servizi logistici per la navigazione.

Il riscaldamento globale ha aperto anche il passaggio a nord-ovest, quello porta dall’Atlantico al Pacifico infilandosi tra Groenlandia e Canada. La prima nave commerciale lo ha imboccato nello scorso ottobre, con un’economia di 4 giorni di viaggio tra Vancouver e la Finlandia. Lungo questa rotta si evita lo stretto di Panama. È una buona notizia anche per i traffici cinesi con l’America Latina, poiché i colossali cargo provenienti dall’Asia spesso hanno dimensioni eccessive per il canale. Se anche il passaggio a nord-ovest diventerà un’importante via di commercio, a trarne vantaggio sarà soprattutto il Canada, nelle cui acque si snoda gran parte della rotta.

La Cina è quanto mai attiva nella regione anche dal punto di vista dello sfruttamento delle risorse naturali. Il governo cinese persegue da anni una politica di «corteggiamento» degli Stati che si affacciano sul circolo polare. Non a caso, la prima tappa del viaggio europeo del premier cinese Wen Jabao (il quale vanta una formazione proprio in geologia) nel 2012 fu l’Islanda, ottima candidata come base portuale per le operazioni cinesi previste nella zona. Gli altri investimenti importanti riguardano la Groenlandia, dove il governo autonomista di Aleqa Hammond, in contrasto con la madrepatria danese, sta aprendo ad accordi commerciali con società minerarie cinesi per lo sfruttamento delle miniere di ferro di Isua. Sempre in Groenlandia, ma a Kvanefjeld, si trova il secondo giacimento mondiale di terre rare e il sesto di uranio, la cui gestione è rimasta alla Danimarca. Anche in questo caso la Cina è coinvolta: attualmente detiene il monopolio mondiale nell’estrazione delle terre rare e l’uranio di Kvanefjeld, se la Danimarca sarà d’accordo, alimenterà le nuove centrali nucleari di Pechino.

Il resto dell’area artica, però, è controllato da potenze ben più agguerrite di Islanda e Groenlandia. Sul circolo polare si affacciano potenze di primo piano come Stati Uniti, Russia, Canada, Svezia, Norvegia, Finlandia e Danimarca. Nel fondo del mare che le divide, secondo i ricercatori «dormono» novanta miliardi di barili di petrolio e 47 mila miliardi di metri cubi di gas naturale distribuiti in diciannove aree, esplorate solo per metà.

Per la Convenzione Onu sul Diritto del Mare del 1982, ciascun Paese può sfruttare i giacimenti siti sulla propria piattaforma continentale, che si estende anche sotto il livello del mare. La Convenzione, però, lascia senza padroni un’ampia zona centrale, prima inaccessibile ma oggi alla portata di navi esploratrici e piattaforme petrolifere. Russia, Canada e Danimarca si stanno contendendo la dorsale di Lomosonov, una catena montuosa sottomarina che si avvicina alle coste di tutti e tre gli stati e che comprende il Polo Nord geografico. Chi dimostrasse che la dorsale è collegata alla propria placca geologica, metterebbe le mani sull’enorme giacimento di petrolio e gas che c’è sotto. La Russia fa sul serio, se nel 2007 ha mandato due batiscafi a 4500 m di profondità per piantare sul Polo la bandiera nazionale. Ma sul piano diplomatico, il contenzioso è tuttora aperto. Le regole sullo sfruttamento delle risorse dell’area sono affidate al Consiglio Artico, un organismo sovranazionale istituito nel 1996 e, finora, piuttosto sonnacchioso. Ne fanno parte gli Stati artici e i rappresentanti dei popoli indigeni della regione e la sua attività si limita ad una conferenza biennale e a qualche commissione di esperti. Negli ultimi tempi, anche il Consiglio ha acquisito rilevanza internazionale. Sei nuovi Stati hanno ottenuto di diventare membri permanenti del Consiglio, sia pure senza diritto di voto.

Se il trend climatico non cambierà, gli appetiti dei contendenti sono destinati a crescere e il Consiglio Artico, i cui membri sembrano assai interessati allo sfruttamento delle risorse più che alla loro conservazione, rappresenta un organo di controllo piuttosto debole. Molti, dunque, tra i ricercatori, i movimenti ambientalisti e i difensori dei popoli indigeni, mettono in guardia contro la «cold rush». La regione artica rimane un habitat ostile, poco conosciuto e quasi incontaminato. Lo sfruttamento dei giacimenti sottomarini comporta rischi notevoli, come ha dimostrato l’incidente della Deepwater Horizon nel golfo del Messico del 2010, aumentati dalla difficoltà di operare in una zona polare. Per questo, grandi società petrolifere come Shell e Total hanno dovuto rinunciare ai progetti di perforazione nell’Artico dopo essersi rese conto della complessità delle operazioni. Ma non è detto che tutti se ne accorgano in tempo.

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