Cultura

Il ricordo in forma di vestito

Il ricordo in forma di vestitoParticolare dall'installazione «The rigid phantom of memory» (2019), nel padiglione della Repubblica Islamica dell’Iran – Courtesy Assar art gallery

Intervista Un incontro con l'artista di Tehran Samira Alikhanzadeh, che rappresenta il suo paese alla Biennale di Venezia. «Lavoro soltanto con fotografie iraniane che appartengono a un periodo specifico, quello in cui il paese stava cambiando e si modernizzava, dalla metà dagli anni ’40 ai primi anni ’50. Lo testimoniano anche gli abiti indossati dai miei soggetti»

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 28 maggio 2019

La celebrazione della vita è il motivo centrale di Of Being and Singing, il padiglione della Repubblica Islamica dell’Iran curato da Ali Bakhtiari alla 58/a Esposizione internazionale d’arte di Venezia (fino al 24 novembre).

La mostra, negli spazi del Fondaco Marcello, si sviluppa attraverso i tre moduli temporali passato presente futuro – passaggi obbligati dell’esistenza. Con tecniche e materiali diversi, dalla cartapesta alla fotografia e al video (con un esplicito omaggio ad Abbas Kiarostami), Reza Lavassani, Samira Alikhanzadeh e Ali Meer Azimi (tutti artisti residenti in Iran), hanno definito il percorso con installazioni che, tra realtà e sogno, stimolano riflessioni su sentimenti universali. Significativa la presenza della tenda di velo che definisce l’allestimento: «nella poesia classica persiana la tenda è un’importante metafora – spiega il curatore – è qualcosa che copre i segreti dell’esistenza. Come dice Khayyam, se spostiamo la tenda i segreti saranno svelati».

Nelle trame narrative del padiglione il passato è affidato a The rigid phantom of memory (2019), l’installazione creata da Samira Alikhanzadeh (Tehran, 1967): una sintesi tra moda-fotografia-cinema-letteratura che accenna anche alle tappe dell’emancipazione della donna iraniana. Vediamo quattro anonimi volti femminili d’altri tempi; il quinto modulo (centrale) riflette, invece, l’immagine dell’osservatore. Notiamo i sorrisi, gli sguardi, magari anche il dettaglio di un filo di perle, cogliendo momenti d’intimità che si spostano dal personale al collettivo. Donne che non indossano il velo. Ma non è questo il punto. Stampando le immagini digitalmente su lastre di metallo tagliate nella sagoma di abiti retrò, l’artista offre anche l’occasione per fare un passo indietro alla storia della fotografia che, fin dai suoi esordi, ebbe grande sviluppo nel suo paese.

Lo scià Nâseroddin (1831-96), ultimo della dinastia Qajar, lui stesso fotografo amateur che ritrasse le donne dell’harem, invitò alla sua corte numerosi fotografi internazionali perché documentassero diversi aspetti del paese. Furono molto attivi anche i locali Mirza Reza Akkasbash e Abdullah Mirza Qajar insieme ai russi Antoin Sevruguin (di origine armena) e Dmitri Ivanovich Ermakov, al francese Jules Richard, al tedesco Ernst Höltzer e, tra gli italiani, Luigi Pesce e Antonio Giannuzzi. Proprio alla Biblioteca nazionale Marciana di Venezia, inoltre, è conservato un esemplare dell’album Ricordi del Viaggio in Persia della Missione Italiana 1862 con sessanta fotografie del pioniere Luigi Montabone.

The rigid phantom of memory è una presenza fisica e metaforica del passare del tempo in cui l’associazione al bianco e nero e alla lastra metallica (speculare e non) rappresentano un’ulteriore referenza alla storia della fotografia. Sia i dagherrotipi che i ferrotipi, infatti, sono fotografie stampate su metallo; più vicina ai nostri tempi è certamente la stampa alla gelatina ai sali d’argento, che qui ha il significato di una memoria labile, un po’ evanescente. Proprio come la scrittura che emerge dal fondo nero che sembra tracciata con il gesso bianco sulla lavagna: basta un gesto della mano per farla tornare nell’oblio. Una memoria collettiva che implicitamente contiene una contraddizione: è costruita sulla presenza e, insieme, sull’assenza.

Samira Alikhanzadeh (foto di Manuela De Leonardis)

Lei si è formata presso il pittore, storico e critico d’arte Aydin Aghdashloo, prima di studiare all’Islamic Azad University di Tehran. Come è avvenuto il passaggio all’uso della fotografia?
Ho imparato tanto da Aydin Aghdashloo, non solo la pittura. All’università, ho avuto modo di confrontarmi con altre tecniche e materiali, inclusa la fotografia. Già all’epoca mi piaceva lavorare con le foto; facevo collage ritagliando immagini dai giornali. Un giorno, accompagnai una mia amica a salutare alcuni suoi parenti che stavano lasciando il paese per trasferirsi all’estero. Vendevano le loro cose e avevano un grande pacco pieno di fotografie: tutta una vita stava per essere buttata via. Chiesi loro se potevo prenderle. L’idea si è sviluppata proprio in quel momento. Quasi vent’anni fa. In seguito ho pescato fra le foto che aveva mio marito, un grande archivio di antichi ritratti di famiglia.

Quindi collezioni, archivi e riutilizzi fotografie trovate, spesso anonime, per offrire loro una nuova vita…
Lavoro soltanto con fotografie iraniane che appartengono a un periodo specifico, quello in cui il paese stava cambiando e si modernizzava, dalla metà dagli anni ’40 ai primi anni ’50. Si vede anche negli abiti indossati dai miei soggetti.

In «The rigid phantom of memory», le donne hanno il volto scoperto…
Ho scelto quel periodo, ma non voglio dire se sia migliore il passato o il presente. Prima di allora le donne indossavano il velo, dopo con la società mutata, se lo sono tolto. Infine, c’è stato un nuovo ribaltamento e il velo è tornato. Non è su questo che volevo focalizzarmi, ma mostrare la modernità di quegli anni.

In particolare, come si è sviluppato questo progetto?
Fin dall’inizio, ho utilizzato fotografie d’epoca e  lo specchio. Quando ho scoperto il metallo come supporto per la stampa mi è piaciuto moltissimo. Mi regalava la sensazione di un fantasma che appariva. Avevo già realizzato una mostra a Tehran esponendo uno di quei vestiti. Il titolo era Andare ma rimanere. L’abito è un oggetto che sopravvive alla persona che lo ha indossato. È un ricordo. Per il padiglione dell’Iran, parlando con il curatore, mi è venuta l’idea di utilizzare altre cose più personali, come la lettera e le scarpe (décolléte argento, ndr). Una volta si scriveva molto di più. La lettera è in farsi, ma i caratteri non sono chiari e la grafia stessa non è molto leggibile. Ho usato un tipo di linguaggio che non è più in voga. Ho fatto delle ricerche e letto molti epistolari d’epoca. La lingua persiana è molto cambiata.

La lettera è scritta con il pennarello bianco e cita Anna Karenina…
(sorride) Ho scelto questa storia, attraverso l’interpretazione cinematografica, perché parla di donne. È una storia molto forte. Ho immaginato una ragazza che scrive la lettera al fidanzato raccontando un vestito indossato da Greta Garbo nei panni di Anna Karenina. Un abito che le è piaciuto così tanto che vorrebbe farlo rifare dalla sarta.

Fotografia, moda, scrittura, cinema… Allora c’era più libertà per le donne iraniane?
Non erano proprio libere. Questa, del resto, è una lettera di fantasia. Ma la ragazza dice che sta studiando tanto perché vuole andare all’università. Una cosa rara all’epoca ma che oggi è diventata la normalità.

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