In anticipo di migliaia di anni sugli archeologi sapiens, Homo erectus sapeva intrattenere relazioni sentimentali con manufatti elaborati da culture umani precedenti. Quando ne rinveniva uno, poteva intravedere in esso significati culturali specifici, finendo per donargli una nuova funzionalità secondo un comportamento improntato al rispetto del valore che gli era già stato attribuito.

È questa l’ipotesi formulata da uno studio curato, tra gli altri, da Flavia Venditti, assistant professor presso l’ateneo di Tübingen. Le ricerche, coordinate dall’Università di Tel Aviv, si riferiscono al sito israeliano di Revadim, più antico del vicino giacimento di Quesem Cave, dove gli studiosi avevano evidenziato prove di riciclo litico, oltre a testimonianze attestanti la capacità dei suoi frequentatori di utilizzare cenere di legna per conservare cibo e pelli (vedi il manifesto del 13 novembre 2020).

IL SITO DI REVADIM, nel Paleolitico inferiore, fu occupato tra cinquecento e duecentomila anni fa da Homo erectus. Lo rivelano i resti faunistici associati e i numerosi bifacciali: il fossile guida del periodo acheuleano. «In un articolo del 2019, avevamo descritto l’abitudine degli ominidi locali di produrre schegge a partire da esemplari già lavorati raccolti durante perlustrazioni contestuali alle attività quotidiane – ha affermato Venditti -. La notizia era che li avevano scheggiati predecessori con i quali i nostri ominidi mai avrebbero potuto incontrarsi, perché vissuti migliaia di anni prima».

Agli inizi di marzo, l’ultima scoperta ha meritato la pubblicazione su Scientific Reports: alcuni degli strumenti raccolti sono stati modificati soltanto in punti specifici; con cura si è prestata attenzione a preservarne la forma generale, limitando gli interventi a minime aree lungo il perimetro.

ALTROVE IL FENOMENO del riciclo è spiegato con criteri economici: si ha bisogno di un oggetto in un determinato momento; lo si prende, si riusa, si getta via. A Revadim, però, la materia prima era disponibile e abbondante. La maggior parte della produzione litica è, infatti, ricavata da pietre vergini. «La percentuale di quelle riciclate è tuttavia alta – ha sottolineato la ricercatrice, che ha ricostruito le biografie dei manufatti rimaneggiati, dopo averli individuati all’interno di un campione di quarantanove pezzi -. Nel livello C3 preso in esame, un quinto della produzione è di riciclo, ottenuta da pietre che oggi appaiono pertanto rivestite da una doppia patina: quella antica successiva al primo uso relativo al ciclo di vita iniziale; quella posteriore al secondo». Un esemplare, addirittura, di vite ne ha vissute tre.

Le patine, depositate dal tempo sullo strato esterno delle selci una volta abbandonate, le hanno cambiate fisicamente, rendendo vivaci le basi grigie originarie.

Flavia Venditti è convinta che siano state proprio queste patine cangianti a catturare l’attenzione degli erectus grazie al loro fascino estetico, inducendoli a trascendere dal semplice utilitarismo verso scelte prettamente culturali: sono argentee le patine calcaree create dall’acqua, smaltate quelle plasmate dalla sabbia del deserto; se esposte alla violenza del sole diventano lucenti, gialle o rosse a seconda dei processi chimici subìti. In ogni caso, devono aver attratto anche chi spremeva l’ambiente fino allo stremo, avendone bisogno per sopravvivere.

Il riciclo di pietre con patina, precedentemente già lavorate

«CI SIAMO AVVALSI di teorie nate in ambiente antropologico», continua la docente, focalizzandosi sull’agency degli oggetti: la loro capacità di agire socialmente, interpretando un ruolo autonomo nella grande recita delle interazioni umane. «Se l’oggetto è nullo senza l’uomo, ugualmente l’uomo è niente senza l’oggetto perché con esso si identifica, pensandolo capace di veicolare messaggi e rappresentare identità, come per esempio accade in etnografia quando i colori definiscono gruppi sociali differenti».

Nel collezionare selci dal passato, donne e uomini di Revadim devono aver sentito una comunione con i loro avi: ciò si rispecchierebbe nella volontà di non modificare i manufatti, lasciandoli vivi e integri nella sacralità dell’aspetto esteriore.

I RICERCATORI si sono serviti di microscopi a basso e alto ingrandimento per l’analisi delle tracce d’uso e delle variazioni nella tessitura e topografia delle selci. Maggiori difficoltà hanno riguardato l’indagine della prima fase, segnata da una patina spessa e completa. Dalle macro-tracce si è comunque dedotto che le pietre scheggiate fungessero in principio da strumenti per il taglio. È invece certo che, successivamente, siano state ritoccate allo scopo di ottenere raschiatoi utili per la macellazione. Lo confermano residui di parti minerali dell’osso e di adipocera lasciata dalla degradazione degli acidi grassi.

«Homo erectus amava questo sito, adagiato lungo il pendio di un fertile fiume, e lo sfruttava assiduamente perché a Revadim accorrevano animali in cerca di acqua», ha spiegato ancora Venditti.
Ignoriamo se li cacciassero o meno. Certamente se ne approfittavano quando andavano lì a morire, come d’abitudine, per gli elefanti. «Di essi si nutrivano uomini che maneggiando oggetti riscattati dal passato chiamavano in causa la loro visione ontologica – ha concluso la studiosa -. Probabilmente i nostri antenati provarono al cospetto della prima vita di tali oggetti emozioni di dignità pari a quelle che noi, rispetto alla loro seconda esistenza, percepiamo ora».