Nel ventaglio di aneddoti dell’«esilio» italiano di Orson Welles in cui scegliere, fior da fiore, c’è quello che vede il regista salire su un taxi a Roma e chiedere a un allibito guidatore di essere portato a Cap d’Antibes. Era il 1950, la tormentata lavorazione di Otello entrava nella fase finale, ma le tasche di Welles erano vuote e restavano da saldare le ultime settimane di riprese e le paghe degli attori. In Costa Azzurra, in quel momento, si trovava Darryl Zanuck, uno dei pochi produttori hollywoodiani ancora disposti a dare credito all’ex enfant prodige. Welles mercanteggiò con Zanuck il cinquanta per cento dei diritti di sfruttamento del film sul mercato anglofono, e se ne tornò in Italia con un plico di banconote impilate.

Questa e altre storie e leggende sono contenute nel documentatissimo e godibile Orson Welles in Italia (Il Castoro 2006) di Alberto Anile, indispensabile se si vuole ricostruire il contesto di nascita della pièce wellesiana Miracolo a Hollywood, sinora inedita in Italia, apparsa adesso da Sellerio («Il divano», a cura di Gianfranco Giagni, pp. 160, € 13,00). La sua origine, infatti, segue di poco il blitz in taxi che aveva messo in sicurezza il film shakespeariano: sollevato dagli accordi con Zanuck, Welles poté – tra i mille altri progetti che occupavano la sua mente – dedicarsi a un ritorno sulle scene teatrali. Durante un soggiorno a Taormina (si sedeva al ristorante dell’Hotel Diodoro con la segretaria e un cane lupo che mangiava da un piatto posato sulla stessa tavola) concepì lo spettacolo dal titolo The Blessed and the Damned, composto da due parti accomunate dal motivo «religioso»: una rilettura del Faust, Time Runs, con musiche di Duke Ellington, e una parodia sull’irruzione del sacro nella Città dei sogni, originariamente chiamata The Unthinking Lobster.

Nel pieno di un’ondata di produzioni a tema biblico, uno studio hollywoodiano ingaggia un cineasta italiano, Alessandro Sporcacione, che in virtù della sua appartenenza alla scuola «semi-realista» sostituisce la star protagonista di un film su Bernadette con una segretaria ignara di recitazione; il peggio, però, è che, vestiti i panni della santa, la segretaria inizia a compiere miracoli veri, facendo accorrere sul set masse di pellegrini. Questo, in breve, il soggetto della parte del dittico consacrata alla «beatitudine». Sul palco del Théâtre Edouard VII di Parigi, dove si tenne la prima il 19 giugno, Welles si divertiva impersonando egli stesso Mr Beehovian, il produttore rozzo – controfigura dei vari Mayer, Goldwyn, Warner ecc. – che nel film biblico di cui visiona i giornalieri vuole tagliare tutta la Creazione fino al quinto giorno, perché «al pubblico piace soltanto il risvolto umano delle cose». Ma, nella prima parte della pièce, Welles si toglie lo sfizio di satireggiare su tutto l’ensemble cast dell’ambiente hollywoodiano: gli sceneggiatori marxisti che nascondono dietro al vanto di purezza intellettuale i propri fallimenti letterari, gli agenti a caccia compulsiva di contratti, i giornalisti di gossip quasi analfabeti (il bersaglio non troppo mascherato era Hedda Hopper). C’è n’è anche per il cinema italiano, e in particolare per il mai amato Rossellini, che si nasconde dietro lo stesso Sporcacione e i suoi capricci artistici.

Tutti questi ingredienti potrebbero già bastare a rendere degna di nota una pièce che – dopo una breve serie di repliche dal successo declinante – sarebbe apparsa in volume solo in Francia, nel 1952, col più immediato titolo (mantenuto nell’attuale edizione) Miracle à Hollywood. Ma Welles era un artista troppo vorace per saziarsi con il solo antipasto della satira, per quanto saporita. Nel secondo atto, levati i sassolini dalle scarpe, scende sul suo terreno d’elezione, e cucina una variazione del tema che avrebbe sempre prediletto, fino agli ultimi lavori Storia immortale (1968) e F come Falso (1973): la danza di realtà e finzione. Un arcangelo, come un deus ex machina, irrompe sulla scena per mettere fine alle belligeranze tra il Cielo e Hollywood: niente più miracoli, e in cambio niente più film a soggetto religioso. Il fuoco drammaturgico, però, slitta dal contratto siglato tra le parti a un confronto tra l’arcangelo e il personaggio dell’arciduca, proprietario di un ristorante frequentato dal gotha degli studios. Quest’ultimo, un russo spiantato che si finge nobile decaduto, riconosce che l’arcangelo forse non è una vera creatura celeste: dissemina penne d’anatra per tutto il palcoscenico… E il presunto arcangelo si dice in possesso di documenti in cui è attestato che il sedicente arciduca è davvero un arciduca: un finto nobile può essere il cocco di Hollywood, ma un nobile vero? Il regno del sacro e quello dell’illusione si scoprono accomunati dallo stesso vezzo, quello di mascherarsi e imbellettarsi, di fingere, forse con il medesimo intento: attirare l’amore.

Come un attore, «Dio viene giudicato ogni momento, in ogni ora del giorno. Come si fa a non giudicarlo? È lui che l’ha voluto». I miracoli, in fondo, non sono che il gioco di un prestigiatore, di un illusionista. Lo «spettacolo d’arte varia» di un amante. «Non c’è niente di normale nel truccare la propria faccia e mostrarla al pubblico – aggiunge il vero-finto arciduca. – È qualcosa di folle. Ma funziona così anche l’amore». La finzione, invece che avvelenare la possibilità del sacro, è forse l’unica condizione del suo baluginare: l’apertura all’Altro si può intuire solo nel labirinto di specchi deformanti della Signora di Shangai. O nella trivialità di una messinscena di cartapesta, come nella Ricotta di Pasolini, dove l’agonia della comparsa Stracci finisce per assumere la gravitas di una vera Passione. L’episodio pasoliniano di Ro.Go.Pa.G. vedeva la luce tredici anni dopo la fugace apparizione di Unthinking Lobster/Miracolo a Hollywood. E, a prestare il suo corpo imponente al regista della Passione, c’era proprio Orson Welles.