Visioni

Il regista galantuomo che amava le sfide

Il regista galantuomo che amava le sfideCarlo Lizzani

Cinema È morto Carlo Lizzani, autore e storico. Come direttore della Mostra di Venezia, ne reinventò la fisionomia. Aveva 91 anni, si è gettato dalla finestra della sua casa romana

Pubblicato circa 11 anni faEdizione del 6 ottobre 2013

È morto come Mario Monicelli, con un salto nel vuoto a 91 anni, Carlo Lizzani, tra i padri del neorealismo e del nostro cinema del dopoguerra. Probabilmente non sopportava, lui che era sempre stato così lucido, preciso, attento, il declino fisico, la malattia e l’inutile attesa della morte. Del resto, non solo era un miracolo sentirlo parlare di avvenimenti storici del nostro cinema, e con la sicurezza di chi c’era, di chi aveva visto e sapeva. Ma pochi come lui avevano avuto la possibilità di essere testimoni della rinascita del nostro cinema e del nostro paese così da vicino. Forse da un punto di vista privilegiato, ma con una competenza non solo da storico, ma anche da critico e teorico. Perfino un suo tardo film, Celluloide (’96) sulla nascita di un capolavoro come Roma città aperta di Rossellini, poteva vantare una invidiabile precisione di ricostruzioneCome mi disse Luciano Emmer che aveva conosciuto da vicino sia Rossellini, interpretato nel film da Massimo Ghini, sia Sergio Amidei, interpretato da Giancarlo Giannini.
Se ne va, Lizzani oltre tutto, pochi giorni dopo Giuliano Gemma. E anche lui, col suo bagaglio di cineasta militante e di neorealista, vantava la regia di ben due western importanti, Un fiume di dollari (’66) e, soprattutto, Requiescant (’67), con nel cast oltre a Lou Castel e Mark Damon, Ninetto Davoli e Pasolini come prete rivoluzionario.
Non erano stravaganze. Lizzani credeva in quei film, al secondo come western rivoluzionario sessantottino, al primo come mischione di western e (attenti!) kung fu. É forse il primo film di western e arti marziali che sia mai girato in Italia, come ci disse alla Mostra di Venezia quando ripresentammo il film per la rassegna degli western all’italiana nel 2007. Proprio al Lido lo avevamo visto lo scorso settembre, anche se non di persona perché era già molto malato, come protagonista e voce narrante di un documentario sul neorealismo di Gianni Bazzocchi, Non eravamo solo ladri di biciclette. Proprio nella Venezia che lo aveva visto tra i direttori più vitali e innovativi, almeno per la mia generazione, negli anni 70, grazie alla prima apertura da parte della Biennale al cinema di genere e ai kolossal che uno dei suoi curatori, Enzo Ungari, seppe costruire con le proiezioni di «Mezzogiorno Mazzanotte», in un trionfo di Indiana Jones, Guerre stellari, horror, thriller, e anche grandi recuperi come i capolavori, allora perduti, di Hitchcock e Nicholas Ray.
Ma Lizzani stesso, al di là del suo status di regista di grandi fatti storici, penso a Il processo di Verona con Rod Steiger e Silvana Mangano, Il gobbo con Gerard Blain e Pier Paolo Pasolini, L’oro di Roma, fu tra i pochi registi da festival e di chiara orientazione politica a sapersi non solo ben destreggiare tra i generi considerati minori, ma addirittura a inventarsi dei modelli di cinema assolutamente nuovi. Un film come Banditi a Milano, intepretato da Gian Maria Volonté e Tomas Milian, costruito a caldo sui misfatti della banda Cavallero, rimane un capolavoro del poliziesco sul modello del quale nascerà un’intero genere, il poliziottesco legato alla cronaca.
Su questa linea sono degli assoluti successi anche il precedente Svegliati e uccidi, « dedicato» a Luciano Lutring, il solista del mitra, il suo episodio americano di Amore e rabbia, Barbagia, Torino nera, dove si inventa come attore «serio» Bud Spencer. Ma è con il grandioso Crazy Joe (’74), interpretato da un meraviglioso Peter Boyle, che cerca di innestare il suo cinema di cronaca nel nuovo genere americano della blaxploitation. Crazy Joe, bandito pazzo innamorato di Richard Widmark in Il bacio della morte di Henry Hathaway è un anarchico in lotta contro il capitalismo della società americana. Anche se il film non andò benissimo, lo preferiamo ai suoi kolossal storici di ricostruzione storica successivi, tipo Mussolini ultimo atto (’74), con Rod Steiger come Mussolini e Lisa Gastoni come Claretta, e decine di altre star, il televisivo Un’isola (’86), versione di partito della vita carceraria di Giorgio Amendola, interpretato da un Massimo Ghini in stile militante pci, o Caro Gorbaciov.
Molti dei suoi film erano ispirati a romanzi italiani contemporanei, cominciando col notevole Cronache di poveri amanti (’54), tratto da Pratolini, sceneggiatura di Ugo Pirro e Sergio Amidei, nel cast Anna Maria Ferrero, Antonella Lualdi, Cosetta Greco Marcello Mastroianni. O La vita agra (’63), rilettura del romanzo di Bianciardi, interpretato da un grande Tognazzi, dove si può ascoltare e vedere un giovanissimo Jannacci nella Milano magica degli anni Sessanta.
Prototipo del regista serio, colto, civile, ma anche pronto alle innovazioni, Lizzani sapeva dare, anche nei film meno risolti prove di grande interesse e non imborghesimento. Non era molto portato per la commedia all’italiana, ma ci provò con tentativi raramente riusciti come quelli di Monicelli o Risi o Comencini – per esempio Il carabiniere a cavallo (’61). Anche se il suo episodio L’autostrada del sole con Alberto Sordi e Nicoletta Machiavelli nel film corale Thrilling è sorprendente. Come sono a tratti sorprendenti alcuni suoi film tra i generi, Roma bene (’71) con Nino Manfredi, per metà commedia e per metà poliziesco, o il violento Storie di vita e malavita (’75) prodotto da Adelina Tattilo, o il thriller erotico Kleinhoff Hotel (’77) con Corinne Clery, sua unica concessione a un genere che non ha mai frequentato.
Prova perfino a girare una spy story, La guerra segreta (’65), per il quale cura l’episodio italiano con Vittorio Gassman e Maria Grazia Buccella, mischia western e film banditesco alla sarda in L’amante di Gramigna (’69) con Gian Maria Volonté e Stefania Sandrelli. Arriva allo stracult col notevole e fortemente erotico Mamma Ebe, che vedemmo a Venezia pieno di nudi femminili e di scene di sadismo come non ci saremmo mai aspettati.
In qualche modo la sua stella si spegne negli anni 80, anche se realizza film, soprattutto per la tv, fino e oltre il 2000; un regale Maria José, per lui vecchio regista pci così poco adatto, Hotel Maina, che Lizzani considerava proprio come l’ultima opera. Non erano male però neanche il suo episodio, Speranza, interpretato da Lucia Sardo, nel film corale sul terremoto di Messina, Scossa, presentato a Venezia nel 2011, che è il suo ultimo.
Sempre pronto a qualsiasi dibattito storico e politico, sempre attento ai cambiamenti e alle novità del cinema, generoso nel ricostruire la Storia del nostro cinema sotto ogni aspetto, Lizzani è una figura abbastanza anomala di uomo di cultura che non voleva farsi ingabbiare in facili etichette. E seppe uscire dalle tante che gli si potevano dare, con film spesso spiazzanti e più interessanti di come alla prima visione sembrassero. Il tempo sarà galantuomo con Carlo Lizzani come lui lo è stato sempre nella vita.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento