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Il regista e il suo doppio

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Intervista In occasione della mostra a Cracovia dedicata alle locandine dei suoi film, un incontro con il cineasta polacco che ha raccontato le speranze e le disillusioni del suo paese attraverso la figura di Walesa. «I miei amori artistici? Sono pazzo di Hokusai e Hiroshige»

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 14 giugno 2014

L’attività di Andrzej Wajda è una traiettoria incommensurabile nella misura in cui la personalità dell’artista polacco sembra eccedere il ventesimo secolo. Una figura debordante proprio come quella di Lech Walesa interpretato da Robert Wieckiewicz in Walesa – L’uomo della speranza(2013), film di cesura sul crollo irreversibile di quella realtà che era stata imbastita su Varsavia. L’ultimo capitolo della trilogia non ufficiale degli uomini dimostra, come non mai, quanto i suoi film siano ancorati alla realtà del suo paese. L’esposizione di locandine tratte dalla sua filmografia – in mostra fino al prossimo 31 agosto al Museo nazionale di Cracovia – offre l’occasione di addentrarsi anche nello sterminato paratesto dell’opera wajdiana.
Preso nel suo insieme, il cinema del regista polacco sembra vivere della tensione tra due pulsioni creative. Niente può esprimere al meglio questa dualità come un ritratto di Wajda dipinto da Leszek Sobocki, conservato al primo piano dello Stary Teatr dove il cineasta ha diretto numerose messe in scena. Wajda vi è raffigurato in piedi con una posa dinamica, il pugno chiuso e una baionetta nell’altra mano. Dietro di lui, una figura spettrale che indossa una testa di Gorgone ispirata a Notte di Novembre, dramma simbolista di Stanislaw Wyspianski sull’insurrezione polacca del 1830 contro l’occupazione russa.
Il cineasta ha il suo doppio. Da un lato, il Wajda alfiere del grand réalisme applicato alla settima arte, capace di raccontare il passato e la storia del proprio paese nel suo divenire. Dall’altro, il regista di Lotna (1959) e Le nozze (1973), ambasciatore della fuga onirica sul grande schermo di fronte alla futilità della storia evenemenziale. Qualsivoglia discorso sulla dualità dell’opera wajdiana è complicato maggiormente dal suo impegno in altre discipline artistiche, un aspetto quasi del tutto sconosciuto all’estero.
Benché significative, le regie per il teatro rappresentano un fenomeno occasionale nella sua carriera. La sua incessante produzione grafica, al contrario, dimostra che Wajda non è mai stato un disegnatore della domenica. Tra le personalità incontrate nel secolo scorso pochissime sono sfuggite alla sua penna: il Dalai Lama, Ionesco, Kantor e numerosi filmmaker quali Altman, Polanski, Oshima et Akira Kurosawa. Con quest’ultimo, in particolare, Wajda sembra avere numerose affinità artistiche e umane.
La maggioranza dei ritratti sono consacrati agli artisti incrociati a Parigi quando abitava al 8ème arrondissement in un appartamento che sarà in seguito preso in affitto da Samuel Fuller. Uno schizzo di Godard datato 1986 gli ricorda il suo rifiuto di recitare il ruolo di un produttore cinematografico di propaganda socialista in un film del cineasta francese che non vedrà poi mai la luce. I disegni e gli acquerelli realizzati da Wajda nel corso dei suoi numerosi soggiorni in Giappone rivelano una verve cromatica e una capacità di sintesi che lui non mai smesso di ammirare negli ukiyo-e esposti a Cracovia sul bordo della Vistola nel museo Manggha voluto dallo stesso regista. Il nostro incontro con il cineasta polacco si è svolto nella piazza del Mercato. Proprio sotto le arcate del Mercato dei tessuti Wajda era stato folgorato per la prima volta dall’arte nipponica, settant’anni fa.

Perché ha definito «Walesa – L’uomo della speranza» il film più difficile nella sua carriera?
Fino a quel momento, non avevo mai guardato alla lavorazione di una pellicola come a una forma di dovere nazionale. Trovare un modo adeguato per raccontare questa figura vincente del secolo scorso proveniente dal mondo operaio è stato estremamente arduo. Come affrontare Walesa evitando al contempo di farne l’agiografia sul grande schermo? Per mettere in scena il suo trionfo, che è stato soprattutto una vittoria collettiva, era meglio partire dalle sconfitte e dalle manifestazioni che venivano brutalmente represse negli anni settanta. Erano questi gli eventi che lo avevano indurito. L’introduzione dell’intervista con Oriana Fallaci (interpretata da Maria Rosaria Omaggio nel film, ndr nella sceneggiatura ci ha permesso di mostrare le zone d’ombra di Walesa: la sua arroganza, la sua religiosità intransigente, nonché la sua avversione verso l’inteligencja del paese.
Da dove viene il suo amour fou per l’arte nipponica?
Durante l’occupazione, ricordo che il Governatorato Generale aveva organizzato un’esposizione di stampe giapponese in piazza del Mercato. Fortunatamente, l’impressionante raccolta di arte asiatica del collezionista Feliks «Manggha» non entrò a far parte al bottino di guerra che Hans Frank aveva confiscato in Polonia per compiacere Hitler. Avevo allora 15 anni. La Gestapo era capace di far passare un brutto quarto d’ora a tutte le persone della mia età per uno sciocchezza. I miei documenti non erano a posto, ma decisi comunque di recarmi in centro, a Cracovia. E da lì che nasce la mia fascinazione per Hokusai e Hiroshige: ero stato anch’io contagiato da quel virus japoniste che aveva catturato l’immaginazione dello stesso Manggha o quella dei fratelli Goncourt in Francia. La realizzazione del museo Manggha non è stata un’impresa da poco. Non capita tutti i giorni che un cineasta riesca a creare un centro espositivo di sua iniziativa.
Anche se il mio archivio personale si trova nell’ala amministrativa dell’edificio, non lo considero un gabinetto d’artista. Un museo appartiene in primo luogo a chi lo visita. Tale progetto non offre che una soluzione parziale alla raccolta di Manggha. Tutto sommato, sarebbe stato impossibile mettere in mostra simultaneamente gli oltre di seimila pezzi che formano la sua straordinaria collezione. Il capitale di partenza viene dalla somma del Prix Kyoto che avevo vinto nel 1987. Il tetto ondulato del padiglione ideato da Arata Isozaki evoca la forma della grande onda di Hokusai.
A proposito di onde, non crede che i primi lavori di Jerzy Skolimowski contengano la promessa mancata di una nouvelle vague polacca?
A partire dal 1956, il sistema delle unità di produzione zespól aveva garantito un’autonomia parziale ai registi sostituendosi a un modello statale gestito dall’alto. Non tutti i cineasti sembravano disponibili a accettare le limitazioni imposte all’interno dei zespól. È stato anche per questa ragione che Polanski, Skolimowski e, in seguito, anche Zulawski fecero le valigie. In una certa maniera, questa generazione ha rappresentato l’anello mancante tra la nostra e quella degli autori del cinema dell’inquietudine morale.
Non ritiene che l’etichetta di cinema dell’inquietudine morale sia sin troppo vaga?

Qualunque artista che avesse scelto di restare negli anni settanta e ottanta non poteva non essere angosciato dalla situazione nel nostro paese. Quelli che sono rimasti, come Kieslowski, Zanussi e la Holland non hanno potuto evitare di criticare. in modo indiretto. le deformazioni del sistema. In quel periodo, il cinema offriva la possibilità di somatizzare il malessere collettivo che non poteva essere denunciato apertamente.
Non ha mai pensato di integrare la produzione figurativa nelle sue pellicole come ha fatto, per esempio, Takeshi Kitano?
A differenza di Fellini non ho mai realizzato degli storyboard. I miei disegni non sono neppure concepiti per guadagnare tempo al momento delle riprese. Uno volta che sono sul set, cerco di dimenticarmi dei miei schizzi. La regia è il momento della possibilità per il cineasta. Durante le riprese, può succedere tutto come nella scena del bar in Cenere e diamanti (1958) in cui Cybulski dà fuoco ad alcuni bicchierini di vodka come fossero torce per commemorare le vittime dell’occupazione nazista.

Non c’è mai stata alcuna interferenza tra la sua attività di cineasta e quella di disegnatore?

Il piacere che provo nel disegnare viene da lontano. Non sono mai riuscito a terminare i miei studi all’Accademia di belle arti di Cracovia. Volevo diventare un pittore. I miei disegni sono anche una forma di giornale intimo. Ormai già da qualche tempo ho smesso di fare schizzi dal vivo a causa della mia età. Preferisco impiegare tutte le forze che mi restano nella regia.

Nel 1959 ha girato «Lotna», une rêverie estetica che sembra annunciare la fine di quella scuola polacca del cinema che aveva trovato in lei uno dei suoi massimi esponenti…
Nella sequenza più celebre del film assistiamo all’assalto eroico ai carri armati tedeschi da parte delle cavalleria polacca, evento che, tra l’altro, non ha mai avuto luogo. Si fatica a trovare tracce di realismo.

Chi potrebbe credere che dei cavalieri armati di sciabola possano avere la meglio sui tank nazisti? Questo film è forse anche un’elegia di uno spirito cavalleresco dei tempi andati…
Lotna sembra mostrare che la decadenza della scuola di Lodz coincide con la conquista del colore da parte del cinema polacco. È stato tra i primi lungometraggi a colori. Le pellicole girate da me Konwicki, Kutz Rozewicz e, in parte, Munk negli anni cinquanta erano radicate radicate nella nostra letteratura, ma ispirate al cinema neorealista. Non vedo nessuna contraddizione. Anche i primi film di Rossellini e De Sica erano stati girati in bianco e nero. Difficile immaginare un neorealismo a colori. E forse questo è un altro filo rosso che lega le due correnti, al di là di una comune esigenza realistica.

L’afflato umanistico nei suoi film sembra iscriversi nella medesima traiettoria del cinema di Akira Kurosawa. Quali sono le affinità elettive?

Ho incontrato Kurosawa numerose volte durante i miei viaggi in Giappone. Ho anche fatto un suo ritratto a penna nel suo appartamento. Non sapevo se avesse visto o meno qualche mio film. Siamo rimasti a lungo in silenzio mentre disegnavo. Era ancora tremendamente provato dall’impegno profuso nella regia di Tora! Tora! Tora! Gli sforzi nella realizzazione di quel film che fu anche la sua prima esperienza con la macchina hollywoodiana lo avevano completamente stravolto.

Ritiene che la dimensione multidisciplinare possa essere considerata un paradigma dell’arte polacca del ventesimo secolo?
Basta prendere nomi di Kantor, Wyspianski e Witkiewicz. Ognuno di loro ha avuto i suoi primi amori in arte. Eppure, hanno saputo destreggiarsi magnificamente anche in altre discipline. Szymborska, per esempio, ha realizzato numerosi collage. Personalmente, ho fatto anche molto teatro. Certo, bisogna capire che la multidisciplinarietà in Polonia è stata un fenomeno strettamente legato a exploit personali. In pochi qui hanno davvero tentato di operare una sintesi delle arti come aveva fatto Diaghilev a Parigi.
«Walesa – L’uomo della speranza» contiene alcune sequenze tratte da «L’uomo di ferro». Dove nasce questa esigenza continua di storicizzare il proprio cinema ?
A posteriori, l’epifania del vero Walesa nel seguito di L’uomo di marmo (1977) anticipa di qualche decennio la sua apparizione – questa volta recitato da un attore – in Walesa – L’uomo della speranza. Non trovo niente di autocelebrativo in queste scelte. La Storia non può essere raccontata senza ricorrere alla ripetizione, Chissà se sono riuscito davvero evitare ogni logica autoreferenziale nella costruzione del racconto. Per questo mi rimetto al giudizio di gusto di quella parte del pubblico che meglio conosce i miei film.

Godard ha detto che il cinema non rappresenta l’immagine del secolo scorso, ma ne è piuttosto la sua stessa metafora. E un’interpretazione che si potrebbe applicare anche ai suoi film?

Mi sono ritrovato improvvisamente seduto in Senato qualche mese dopo le prime elezioni libere di giugno 1989. A partire da quel momento, ogni tentativo di distinguere l’arte dalla vita è diventato più difficile per me. Si è trattato comunque di un prezzo irrisorio da pagare per aver avuto il privilegio di participare attivamente alle trasformazioni storiche del mio paese. Senza il cinema tutto questo non sarebbe stato possibile.

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