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Il reality show della nostra politica estera

Il reality show della nostra politica esteraSilvia Romano

Silvia Romano Dopo anni di dibattiti su come contrastare la radicalizzazione dovremmo avere imparato qualche cosa. In questo caso il ruolo della Turchia è stato così evidente che senza nulla togliere ai servizi si doveva liquidare la faccenda velocemente. Ma il ritorno è stato gestito con un reality show

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 13 maggio 2020

Silvia Romano non era ancora decollata da Mogadiscio quando già da noi planavano gli avvoltoi sull’ennesimo inutile e putrescente dibattito. Che non ci sarebbe neppure stato se al centro non ci fosse una giovane donna, per di più una volontaria convertita all’Islam.

Nessuno aveva sollevato la minima obiezione per i riscatti pagati per liberare in Siria Sergio Zanotti o Alessandro Sandrini, anche lui sequestrato in Siria e tornato convertito, persino radicalizzato.

Una buona notizia come la sua liberazione è stata gestita malamente da un governo affamato di consensi. L’hanno esibita come un trofeo e ora forse dovrà finire sotto scorta per gli insulti sul web.

Le polemiche sul riscatto e su cosa facesse in Kenya non hanno nessun senso. Silvia è stata sequestrata nell’area dei giriama, popolazione assai mite e ospitale che ben conosco, da una banda venuta da fuori capeggiata da un somalo che si è volatilizzato con una cauzione di 25mila dollari, un’enormità da quelle parti: questa è stata la vera anomalia.

Quello che dovrebbe interessarci di più è il dato politico di una vicenda dove ha giocato un ruolo “determinante” la Turchia (parole del vice ministro degli Esteri Marina Sereni), il suo alleato Qatar, i nostri rapporti con l’estremismo islamico e l’arretramento della politica estera italiana su tutti i quadranti.

Poco importa la cifra pagata: tutti gli Stati occidentali, Stati Uniti compresi, pagano per liberare i propri connazionali negando pubblicamente di averlo fatto. Hanno negoziato anche quelli che proclamano ipocritamente: “con i terroristi non si tratta”.

Gli americani nel 2014 pur di liberare in Afghanistan il militare Bowe Berghdal consegnarono ai talebani cinque dei loro capi che erano detenuti a Guantanamo. E hanno pagato francesi, inglesi, spagnoli, tedeschi. Eppure nessuno ha scritto che i loro governi stavano “finanziando il jihad”.

Qual è allora la differenza? Sta nel protocollo adottato da gran parte dei Paesi occidentali. Non ci sono o quasi immagini del rientro del sequestrato, non si rilasciano dichiarazioni e conferenze stampa. Da molto tempo negli Usa ma anche in Europa si evita persino di riprendere i funerali dei militari caduti sul campo. Tutti sanno che servono come strumento di propaganda dei jihadisti.

Dopo anni di dibattiti su come contrastare la radicalizzazione dovremmo avere imparato qualche cosa. Non solo. Nel caso di Silvia Romano il ruolo della Turchia è stato così evidente che senza nulla togliere ai servizi si doveva liquidare la faccenda velocemente.
Il ritorno è stato gestito con un reality show, con dichiarazioni del capo del governo e del suo ministro degli Esteri, applausi e abbracci.

Per non parlare dei verbali davanti al giudice. Dopo tre ore erano sui siti di tutti i giornali nazionali come se Silvia invece di una deposizione riservata avesse fatto una conversazione con il portinaio sotto casa.

Misuriamo il contesto politico. Con i jihadisti non solo negoziano tutti, anche noi, altrimenti non si spiega soltanto con la sicurezza il fatto che l’Italia, terra di passaggio, sia stata tenuta fuori dagli attentati che hanno devastato l’Europa.

Con i jihadisti di Erdogan siamo in ottime relazioni: forse qualcuno si ricorderà pure che abbiamo dato un comodo visto Schengen anche a Abdelakim Belhadj, conquistatore di Tripoli nel 2011, veterano dell’Afghanistan e nel mirino della Cia dal 2004. Oggi è uomo d’affari che con la sua compagnia aerea traffica uomini e armi sulla rotta Istanbul-Libia.

Certo con l’amico Erdogan ci avviciniamo sempre di più al jihadismo. I servizi turchi hanno avuto rapporti stretti con l’Isis che veniva sostenuto da Ankara: a Kobane nell’ottobre 2015, mentre ero dalla parte dei curdi, ho visto quelli dell’Isis andare e venire dalla frontiera passando indisturbati.

La Turchia continua a foraggiare le milizie jihadiste. Senza che qui in Europa nessuno dica nulla. Neppure la Germania che ha spinto l’Europa a fare accordi con Erdogan per tenersi in casa tre milioni di profughi ma ha appena messo fuori legge gli Hezbollah sciiti libanesi, un partito di governo a Beirut. Non è stata neppure sfiorata dall’idea di protestare con Ankara perché usa sul campo le milizie jihadiste in Libia e in Siria, sia contro Damasco che contro i curdi.

Dopo la caduta di Gheddafi la Turchia ha prelevato le milizie jihadiste anti-raìs per mandarle a combattere in Siria contro Assad. E anche qui tutti zitti: erano d’accordo pure gli Stati Uniti di Obama e della signora Hillary Clinton, allora segretario di Stato. Che cosa diamo adesso in cambio al Sultano?

Grecia, Cipro, Egitto, Francia ed Emirati ieri hanno condannato la politica espansionistica della Turchia nel Mediterraneo orientale. Ma l’Italia, che pure a Cipro ha i giacimenti dell’Eni nel gas offshore, è rimasta fuori, in posizione defilata. Ecco un esempio, forse solo il primo di cosa vuol dire il reality show di Erdogan.

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