Il re dello spionaggio magico
Narrativa cinese Attingendo alla tradizione dei casi giudiziari, "Il fatale talento del signor Rong" descrive un decrittatore di codici, mentre moltiplica le voci e trova nuove vie per il «mistero»
Narrativa cinese Attingendo alla tradizione dei casi giudiziari, "Il fatale talento del signor Rong" descrive un decrittatore di codici, mentre moltiplica le voci e trova nuove vie per il «mistero»
Autore di storie di spionaggio ambientate nella Cina del Novecento, in particolare nel periodo nei complessi anni dell’occupazione giapponese, quando le parti in gioco (giapponesi, nazionalisti, comunisti) si moltiplicavano così come le spie delle spie delle spie, Mai Jia (al secolo, Jiang Benhu) non è solo un abile tessitore di storie avvincenti ma l’autore di una scrittura morbida e fluida, dotato di una lingua ricca e creativa, e capace di consegnare un grande spessore psicologico ai suoi personaggi.
Arruolato giovanissimo nell’Esercito di Liberazione Popolare, vi è rimasto per ben diciassette anni, ricoprendo numerosi incarichi in varie parti del paese. La sua predisposizione per la matematica, il suo lavoro d’intelligence e eventualmente di decrittazione di codici sono noti anche se, per ovvie ragioni mai del tutto accertati, e hanno certamente avuto un ruolo nel costruire l’immagine popolare di questo «re delle spie», capace di trasformare in oro non solo le pagine dei suoi romanzi, ma anche le sceneggiature per il cinema e per la TV che escono dalla sua penna.
È proprio il suo primo romanzo, uscito in Cina nel 2002 dopo una lunga incubazione, a uscire ora da Marsilio con il titolo Il fatale talento del signor Rong per la traduzione di Fabio Zucchella (pp. 414, euro18.50 basata sulla versione inglese Decoded. Per quanto l’autore possa essere stato d’accordo, tuttavia sorprende questa scelta di passare attraverso una lingua di mediazione, strada ormai sempre meno battuta dalle case editrici almeno per quanto concerne la letteratura cinese. Zucchella, che ha firmato già diverse traduzioni dell’autore, di origini cinesi ma di lingua inglese, Qiu Xiaolong, riesce a cogliere bene il ritmo della scrittura di Mai Jia, e solo alcuni punti qua e là tradiscono la sua distanza dal mondo culturale d’origine del romanzo.
Quando alla fine degli anni novanta Mai Jia decise di dedicarsi a tempo pieno alla scrittura, i generi di intrattenimento erano ormai in Cina un grande business, che coinvolgeva editoria, cinema e televisione. In questo fiorente mercato, il «giallo» nelle sue varie declinazioni – dal poliziesco al thriller, dallo spionaggio al noir – ha conquistato rapidamente il suo posto al sole, nonostante sia sostanzialmente un genere di «importazione»: unica antenata nella tradizione cinese, la narrativa dei «casi giudiziari», racconti moraleggianti in cui il protagonista è un integerrimo giudice, che aiuta e guida il popolo risolvendo brillantemente i casi più strani, distribuendo premi e punizioni con infallibile equità.
La pioggia di traduzioni dei maestri del giallo occidentali, iniziata fin dai primi del Novecento, dopo un breve periodo di interruzione causata dalla rigida censura nel periodo della Rivoluzione Culturale, è divenuta ancora più abbondante a partire dagli anni ottanta, incoraggiando molti giovani autori cinesi a cimentarsi nel genere. Inoltre, proprio in quegli stessi anni, il governo cinese ha preso a finanziare numerose riviste dedicate alla narrativa di casi polizieschi e giudiziari, con l’obiettivo di divulgare la conoscenza del sistema legale cinese che i nuovi codici civili e penali via promulgati stavano ridisegnando: il risultato è che oggi in Cina i giallisti sono numerosissimi.
Mai Jia si distingue in questo affollato panorama in primo luogo per il suo talento letterario: le parole fluiscono dalla sua penna con un ritmo pacato sebbene serrato, che sembra avere rubato ai tradizionali cantastorie, insieme ai loro stratagemmi per tenere viva l’attenzione dei lettori e creare l’attesa, attraverso trucchi classici, eppure sempre efficaci.
Il suo ritmo cadenzato pur conservando il sapore del passato, mescola strutture e tecniche narrative modernissime, che vanno dal moltiplicarsi delle voci narranti, schizofrenici salti avanti e indietro nel tempo, alla frantumazione della realtà negli specchi dei diversi punti di vista. Peculiare, poi, è il modo in cui introduce l’elemento del «mistero», che spesso confina o sconfina nei limiti del magico.
I ripetuti agganci alla realtà della storia recente della Cina e l’insistente volontà esplicitata dalla voce narrante di riportare episodi reali cozza contro l’emergere di fatti e coincidenze singolari e strani, mettendo continuamente in discussione il limite tra realtà, sogno e immaginazione. Mai Jia attinge a piene mani alla tradizione narrativa cinese dei «casi giudiziari», in cui molto spesso proprio il sogno è lo strumento che aiuta l’integerrimo giudice a raccogliere le prove, scoprire la realtà dei fatti, smascherare i colpevoli. Allo stesso tempo, lo scrittore strizza l’occhio alle strutture narrative del realismo magico, in cui elementi prodigiosi convivono naturalmente con fatti della vita di ogni giorno, confondendo così il limite fra sogno e realtà, magia e mistero.
In particolare, questo suo primo romanzo, che potrebbe deludere chi andasse in cerca delle trame intricate di spie e controspie, di svelamenti dei doppi e tripli travestimenti e tradimenti, rivela – invece – la qualità del suo «spionaggio magico». Se l’intreccio è classico, vale a dire la caccia a un codice segreto, esso viene rapidamente messo in secondo piano dalla narrazione travolgente e avvincente della saga dei Rong, dalle origini misteriose del protagonista ai numerosi casi strani accaduti nella famiglia: ne è un esempio l’enorme testa che appartiene a tutti i componenti della famiglia Rong da tre generazioni, considerata segno tangibile della genialità, un caso che sfida le leggi della natura per sconfinare nel prodigioso.
Il titolo originale, Jiemi, nel suo doppio significato di «decrittare codici» e «svelare segreti» rimandava ai due piani paralleli del romanzo: la storia di spionaggio e di decrittazione del cosiddetto codice viola, e la storia famigliare e personale del signor Rong. La scelta del titolo italiano mette invece l’enfasi sulle vicende del protagonista: certo il signor Rong e il suo fatale talento sono al centro del romanzo, molto più della caccia al codice che occupa soltanto la seconda parte; ma questo non rende la narrazione meno affascinante, e la storia meno avvincente.
Ciò che suscita l’ammirazione di pubblico e critica per Mai Jia è la sua profonda capacità di introspezione psicologia dei personaggi, che spesso oscura e mette in secondo piano la sua attenzione per l’azione e l’intreccio. In questo romanzo, centrale è la riflessione sulla condizione umana del signor Rong, sulla fortuna e la fatica dell’essere un genio, sulla pesante controparte della sua genialità matematica costituita dall’inettitudine nella gestione della vita quotidiana, delle relazioni personali, degli affetti. Anche nei romanzi più recenti di Mai Jia, l’interesse per la psiche umana è centrale, nonostante la trama con i suoi intricati tradimenti e svelamenti prenda il sopravvento. La paura e il timore di venire scoperti, l’adrenalina scatenata dal successo, la tensione dell’azione, tutto il mondo interiore dei personaggi trova ampio spazio nelle pagine di Mai Jia.
Quanto al signor Rong, sebbene di certo l’intreccio fra genio pazzia inettitudine non sia originale, la serrata narrazione di Mai Jia riesce nella maggior parte dei casi a evitare la banalità e, soprattutto, a tenere sempre viva l’attenzione. La descrizione claustrofobica dell’unità di lavoro, le misure di segretezza che sconfinano nella segregazione e nel controllo totale della vita del signor Rong senza che egli mostri alcun segno di insofferenza, aprono importanti interrogativi e spunti di riflessione sulla fragilità del genio e soprattutto sul grave rischio (o realtà?) che queste sue doti vengano manipolate dal potere e dalla politica.
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