Il rapporto delle Nazioni unite: torture a morte nella Libia «liberata»
E le milizie armate attaccano l’ambasciata russa a Tripoli
E le milizie armate attaccano l’ambasciata russa a Tripoli
Mentre scriviamo, secondo Al Arabya, uomini armati hanno attaccato l’ambasciata russa a Tripoli. Un portavoce del ministero degli esteri russo ha confermato l’attacco. Dalle prime informazioni, non ci sarebbero feriti tra i dipendenti.
Ma la notizia è l’ultimo rapporto dell’Onu sulla tortura nelle carceri della «nuova» Libia – che richiama indirettamente anche il peso delle centinaia di milizie incontrollabili. Un rapporto Onu che non stupisce affatto M.A., libico rifugiato all’estero che segue con alcuni avvocati la situazione dei detenuti politici, fra i quali alcuni suoi familiari. Le numerose prigioni strapiene di «detenuti post-guerra» in mano a milizie, le detenzioni arbitrarie, l’assenza di processi, le violenze anche mortali sui prigionieri sono il frutto avvelenato dei bombardamenti della Nato fra marzo e ottobre 2011, con l’iniziale incauto avallo del Consiglio di sicurezza Onu.
8mila detenuti senza processo
Lo studio «Torture and deaths in detention in Libya» è stato realizzato congiuntamente dall’Ufficio dell’Alto commissariato Onu per i diritti umani basato a Ginevra e dalla Missione Onu di sostegno in Libia (Unsmil). Si può leggere per intero in arabo e in inglese sul sito di quest’ultima. La Unsmil ha visitato 30 centri in due anni e ottenuto informazioni da funzionari e addetti, familiari, medici e in alcuni casi dagli stessi detenuti. La gran parte delle circa 8mila persone incarcerate (nella foto Reuters) «per ragioni dovute al conflitto» non ha mai avuto un processo. Né ha accesso ad avvocati. E molto spesso non sono consentite le visite di familiari (per chi ne ha, perché molti detenuti sono non libici ma subsahariani).
27 casi di uccisioni
La tortura appare molto diffusa, soprattutto subito dopo l’arresto, per estorcere confessioni. In alcuni casi gli stessi membri delle milizie hanno ammesso e anche cercato di giustificare gli abusi fisici sui detenuti. Fra le molte denunce, da fine 2011 a oggi sono confermati 27 casi di detenuti morti per le violenze subite.
Il rapporto Onu sostiene che leviolazioni riguardano in gran parte i centri di detenzione non formali, quelli in mano alle milizie tollerate da Tripoli, che persistono «malgrado gli sforzi del governo». Tuttavia, 11 morti per torture si trovavano in prigioni governative, gestite da quelle che il rapporto chiama «brigate armate nate durante la rivoluzione del 2011» e alle quali la Nato fece da aviazione. Enfatiche le parole del rappresentante speciale del segretario Onu Ban Ki-moon per la Libia: le detenzioni arbitrarie e le torture «vanno contro gli obiettivi della rivoluzione del 2011». Il rapporto raccomanda che le autorità libiche e le brigate armate accelerino il passaggio dei detenuti a strutture dello Stato, e li proteggano da trattamenti inumani e degradanti. E processino oppure liberino i detenuti post-conflitto, in applicazione della legge sulla giustizia transizionale. Nell’aprile 2013, la Libia ha adottato una legge contro la tortura, le sparizioni forzate e la discriminazione, e poche settimane fa ha deliberato l’obbligo di giudicare entro 90 giorni i detenuti per cause legate al conflitto.
La vicenda di Abuzayad Dorda
Ma tutto va a rilento. A giugno, il Consiglio di sicurezza Onu aveva denunciato all’unanimità torture e detenzioni arbitrarie ai danni di migliaia di persone, invitando il governo a punire i colpevoli di questi atti, a fare uno screening dei detenuti cercando di liberare gli innocenti manifesti, e a trasferire gli altri in strutture ufficiali. Invece a Tripoli, il 19 settembre scorso, sotto il naso del governo, si è svolto, denuncia di M.A., «un processo politico intimidatorio di decine di detenuti, senza avvocati – i pochi ammessi sono stati insultati dai «giudici». Tutti i processati sono stati definiti «ex funzionari governativi» e tutti sono stati accusati genericamente di «crimini contro l’umanità». Fra i processati di quel giorno Abuzayd Dorda, ex ambasciatore della Jamahiriya. Incarcerato dal 2011, ha già avuto due processi, il primo dei quali dichiarato incostituzionale dalla Corte suprema libica, il secondo in corso da 6 mesi, con dieci sedute, tutte rinviate per mancanza di ogni prova a carico. Il 19 settembre, a sorpresa, per la prima volta è stato accusato anche di traffico di droga, un crimine che in Libia è punito con la morte. Anche Ali Magtoof, semplice segretario di Dorda per decenni, rapito 5 mesi fa, scambiato fra varie milizie, e l’autista Mabrook Mohammd Alslamee sono stati accusati in quella sede di uccisioni di «crimini contro l’umanità». Una comoda etichetta per bollare i vinti.
Il rapporto Onu purtroppo non parla dei 5mila migranti subsahariani che languono nei «centri di trattenimento» gestiti dal ministero libico dell’interno, benedetti e ricostruiti dal presidente Enrico Letta, al quale l’omologo libico Ali Zeidan ha assicurato sforzi sovrumani per fermare la migrazione verso Italia ed Europa.
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