Non solo in Italia si dibatte sull’uso dei farmaci nel trattamento della disforia di genere negli adolescenti. Nel Regno Unito ha fatto molto rumore la pubblicazione del cosiddetto «Rapporto Cass». Il rapporto prende il nome da Hilary Cass, la pediatra a cui il ministero della sanità britannico ha chiesto di valutare le terapie a disposizione per ragazze e ragazzi in cui sesso biologico e identità di genere non coincidono. Il rapporto, circa 400 pagine che hanno richiesto tre anni di lavoro, è stato pubblicato il 9 aprile. E da molti commentatori è stato interpretato come uno schiaffo contro l’uso dei farmaci negli adolescenti per curare la disforia di genere. Cass ha effettivamente osservato come in questo ambito «continuano a mancare evidenze scientifiche di alta qualità in quest’area» e che «l’attuale conoscenza dell’impatto a lungo termine sulla salute degli interventi ormonali è limitata e deve essere approfondita».

In particolare, il rapporto dedica molto spazio ai farmaci che bloccano la pubertà. Secondo il rapporto, che ha esaminato la letteratura scientifica in materia, non vi sono prove sufficienti per affermare che questi farmaci portino benefici dal punto di vista psicologico, se non «in un ristretto numero di casi». Cass consiglia dunque di restringere l’uso della triptorelina, il farmaco più diffuso, a sperimentazioni a scopo di ricerca che facciano chiarezza sull’efficacia e sulla sicurezza della molecola, e sollecita i medici inglesi a un maggior ricorso alla psicoterapia.

In ogni caso, anche prima della pubblicazione del rapporto i centri per il trattamento per la disforia di genere erano nell’occhio del ciclone. Il più grande al mondo, il Tavistock’s Gender Identity Development Services (Gids) di Londra fondato dall’italiano Domenico Di Ceglie, è stato chiuso definitivamente il 30 marzo dopo anni di aspre polemiche sulla facilità con cui i farmaci bloccanti venivano offerti dai medici della struttura a adolescenti e bambini. Il Rapporto Cass ha ottenuto ampia e ovvia risonanza anche in Italia. Il documento sembra dare ragione a Maurizio Gasparri e agli altri esponenti politici – non solo di destra – protagonisti di una campagna contro i medici dell’ospedale fiorentino di Careggi, uno dei pochi centri pubblici italiani per il trattamento della disforia di genere, accusati di somministrare la triptorelina con eccessiva disinvoltura.

In realtà, le cose non stanno esattamente così. Nonostante il polverone sollevato da Gasparri e dai gruppi Pro Vita, l’ispezione del ministero della salute a Careggi non ha rinvenuto gravi criticità e ha piuttosto suggerito a Careggi di potenziare il servizi attuale. Ma soprattutto, la realtà inglese è assai diversa da quella italiana. Innanzitutto dal punto di vista dei numeri: nel centro londinese, sono stati oltre duemila i minori trattati con farmaci bloccanti, mentre a Careggi, secondo gli ispettori ministeriali, si parla di appena «81 casi negli ultimi anni». Le linee guida italiane sono infatti assai più prudenti di quelle inglesi e riservano i farmaci solo ai casi in cui la psicoterapia non si è rivelata efficace e il rischio di autolesionismo è ritenuto superiore a quello dei farmaci.

Molte raccomandazioni del rapporto Cass sono già incluse nelle nostre linee guida. Sarebbe dunque sbagliato imitare la drastica marcia indietro inglese, come sembra intenzionato a fare il ministro della salute Schillaci su input politico. Maggiori approfondimenti scientifici, vigilanza sull’attività dei medici e prudenza nell’uso dei farmaci sono sempre auspicabili. Ma da noi rischiano di diventare un’arma ideologica per negare tout court il diritto alla cura.