Il presidente iracheno lancia il guanto di sfida contro il premier Nouri al-Maliki. Ieri dopo giorni di alta tensione politica, il curdo Fouad Massoum, neo eletto presidente della repubblica, ha nominato primo ministro il vice presidente del parlamento, Haider al-Abadi, membro di Stato di Diritto, stesso partito di Maliki, tornato dall’esilio negli Usa dopo la caduta di Saddam Hussein. Ora al-Abadi ha 30 giorni di tempo per formare un nuovo governo e ottenere la fiducia parlamentare.

All’ex premier resta la carica di comandante in capo delle forze militari, un’eventualità che fa temere un possibile colpo di mano: mentre al-Abdadi prometteva di «proteggere il popolo iracheno», il “deposto” Maliki annunciava il ricorso alla corte costituzionale. Una vendetta già anticipata dal tentativo di colpo di Stato di domenica scorsa.

Non bastavano le violenze dell’Isil contro i civili e l’occupazione di un terzo del paese, le esecuzioni sommarie, le chiese distrutte e le moschee in macerie. A dare il colpo di grazia era stato domenica proprio Maliki, uno dei responsabili del settarismo che insanguina l’Iraq da anni. Il premier (o meglio, ex), in un atto di grave irresponsabilità, dopo aver impedito con ogni mezzo la sua deposizione a favore di un governo di unità nazionale, è stato il protagonista di un atto che sfiora il colpo di Stato. Due giorni fa ha apertamente accusato il presidente Massoum di violazione della costituzione.

Un’accusa gravissima a cui è seguito il dispiegamento di forze militari e poliziotti fedeli al premier intorno alla zona verde della capitale, sede fortificata delle ambasciate, gli uffici ministeriali e governativi, l’abitazione del primo ministro e il parlamento. Carri armati sotto il diretto controllo dell’ex premier hanno occupato in breve tempo le strade e i ponti principali della capitale, mentre miliziani iniziavano il pattugliamento dei quartieri sciiti.

Il massiccio arrivo di forze militari – che prosegue ancora oggi – è cominciato nella serata di domenica, intorno alle 20.30, sinistra anticipazione del discorso che di lì a poco Maliki avrebbe tenuto di fronte alle telecamere dalla tv di Stato: l’intenzione di denunciare il presidente Massoum, considerato colpevole di aver violato la costituzione per non avergli affidato il terzo mandato consecutivo per la formazione del nuovo governo. Un atto di impeachment rivolto al parlamento e che scuote il già fragile spettro politico iracheno.

A monte sta la rivendicazione di Maliki di vittoria alle elezioni di fine aprile. In realtà, quelle consultazioni elettorali si chiusero con risultati quantomeno incerti: Stato di Diritto non ottenne la maggioranza assoluta, ma 92 seggi su 328. I tentativi di alleanze con partiti sciiti, nell’obiettivo di racimolare i 165 seggi necessari a governare il paese, sono falliti lasciando l’Iraq in un gravissimo stallo politico che ha facilitato l’avanzata dell’Isil.

Immediata la reazione della comunità internazionale, che da tempo premeva per un allontanamento di Maliki: messo a sedere sulla poltrona di premier dall’occupazione Usa, è considerato uno dei responsabili della settarizzazione dell’Iraq, portata avanti con politiche discriminatorie delle comunità sunnita e curda, estromesse dalla gestione del potere politico ed economico. L’inviato speciale dell’Onu a Baghdad Mladevon ha denunciato il quasi colpo di Stato, chiedendo alle forze militari di «astenersi da interferenze nel processo politico democratico». Da Washington il segretario di Stato Kerry ha ribadito il sostegno statunitense al presidente Massoum e chiesto a Maliki di evitare una crisi politica che avrebbe il solo devastante effetto di aggravare la già drammatica emergenza umanitaria.

Sul campo continuano i bombardamenti americani alle postazioni dell’Isil, iniziati venerdì a nord, a poca distanza dalla capitale della regione autonoma del Kurdistan. Allo sganciamento di bombe, è seguito l’invio di armi direttamente ai peshmerga, impegnati da due mesi nel tentativo di arginare l’offensiva jihadista che ora minaccia direttamente i confini curdi e i territori ufficiosamente conquistati da Irbil, tra cui la strategica Kirkuk.

Dalla Casa Bianca la conferma ufficiale è giunta ieri: da una settimana, secondo il Dipartimento di Stato, armi e munizioni statunitensi stanno raggiungendo il Kurdistan. Ma sul piano diplomatico, il presidente Obama insiste per la formazione di un governo di unità nazionale, inclusivo delle minoranze, condizione ad un intervento più ampio da parte dell’aviazione Usa. «Riaffermiamo il sostegno ad un processo di selezione di un primo ministro che possa rappresentare le aspirazioni del popolo iracheno e creare consenso nazionale», ha commentato la portavoce del Dipartimento di Stato, Jen Psaki.

Il messaggio per il rais Maliki è chiaro: farsi da parte. A favore dell’ex primo ministro c’è l’enorme potere archiviato in otto anni, una rete clientelare ramificata e il controllo totale delle forze armate a capo delle quali ha posto propri uomini. Resta da vedere se parlamento e presidente riusciranno ad arginare tale potere.