In Giappone è uscito la scorsa estate, il 14 luglio, presentato dallo Studio Ghibli come «l’ultimo film di Miyazaki», e nonostante la mancanza di una campagna pubblicitaria (nessuna promozione né trailer, poche proiezioni stampa) è diventato subito per il pubblico del Sol Levante un appuntamento irrinunciabile. Non è la prima volta che viene annunciato il ritiro del fondatore dello Studio Ghibli, lo aveva fatto lui stesso una decina di anni fa, ai tempi di Si alza il vento (2013) – presentato alla Mostra del cinema di Venezia. Anche allora Miyazaki aveva dichiarato parlando della lavorazione di quel film che lo aveva impegnato per cinque anni: «Non so se avrò tempo a sufficienza per lanciarmi in una nuova avventura».

E INVECE, e per fortuna il regista, che oggi ha 82 anni (è nato nel 1941) vincendo i dolori articolari e la fatica ha ripreso in mano le sue matite per portarci ancora una volta nel suo

immaginario stupefacente che qui si volge più anche in altre occasioni ai suoi ricordi d’infanzia. Ecco dunque Il ragazzo e l’airone – nelle nostre sale il 1 gennaio, una bella scelta per iniziare il nuovo anno – ispirato a un romanzo di Genzaburo Yoshino, una sorta di racconto di formazione destinato agli adolescenti che parla di umanità, libertà, che affronta il sentimento della vita in anni di ascesa militarista condividendo con Miyazaki la visione anti-militarista che spesso ha espresso – ha sempre criticato le politiche di riarmo e di estensione dell’autodifesa nipponica avanzate dalla destra giapponese soprattutto dopo il secondo mandato di Shinzo Abe, e accentuate con Fumio Kishida.
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Ma Il ragazzo e l’airone del libro di Yoshino pubblicato nel 1937 col titolo E voi come vivete? non ne è l’adattamento, ma appunto si nutre della memoria del regista mescolando l’autobiografia a una dimensione fantastica, a una cosmogonia intima e universale nella quale le storie si moltiplicano l’una con l’altra, arrestano il tempo, lo sospendono per renderlo più reale. Che film è allora Il ragazzo e l’airone? C’è il vissuto di Miyazaki, a cominciare da quel libro regalo di sua madre, insieme al sentimento di paura della guerra, di chi ha vissuto come lui i bombardamenti del secondo conflitto mondiale che costrinsero la sua famiglia a traslocare più volte. E ritorna anche quel vuoto che riguarda la mancanza della figura materna – la madre di Miyazaki era rimasta a lungo in ospedale per una forma grave di tubercolosi. Al tempo stesso appaiono quelle inquietudini infantili, in bilico fra sogno e reale, che pongono domande universali senza trovare risposte nette, in cui tutto può essere vero e amplificato come i rumori di una porta o la brutalità della violenza.

IL PROTAGONISTA è un ragazzino, Mahito, ha undici anni e ha perso la mamma in un raid aereo. Due anni dopo suo padre lo porta con sé nella villa famigliare in campagna dove vive anche la sorella minore della madre con cui il giovane vedovo ha iniziato una nuova relazione – i due avranno presto un figlio. Mahito non vuole far parte di quella nuova organizzazione famigliare, si chiude in sé stesso, si fa male, si rompe la testa con una pietra, non ha superato quel dolorosissimo lutto, quel trauma di fuoco che apre nella prima scena il film, quando lo vediamo correre disperatamente nel tentativo di salvare la madre.

FINCHÉ non accade qualcosa che gli apre una nuova dimensione, l’incontro con un airone cinerino, quell’uccello grigio che si trova sempre davanti, che lo tormenta e che lo condurrà in un universo dove i vivi e i morti possono stare insieme, dove ritrova la sua amata mamma e conosce i segreti della sua famiglia. Questo viaggio iniziatico intreccia molte figure muovendosi sul quel bordo di reale e fantastico lungo il quale l’autore cerca un costante equilibrio seguendo il suo personaggio mentre come Orfeo attraversa il regno dei morti. Miyazaki che per completare il film ha impiegato sette anni, conduce il giovane Mahito – e noi con lui – fra forme e creature la cui natura non appare mai univoca, che possono assumere un duplice e un molteplice aspetto e che portano in sé sempre qualcosa di inafferrabile. Rispetto a altre storie, pensiamo a Il viaggio di Chihiro fra gli spiriti stregati che trasformano i suoi genitori in maiali – l’atmosfera è più cupa, come se le epifanie del giovane protagonista non riescano a trovare quell’entusiasmo di farcela comunque contro avversità e abbandoni. Ci sono molte citazioni che attraversano l’immaginario collettivo, e che rimandano all’arte dello stesso Miyazaki, il quale nelle scelte cromatiche e visuali guarda alle sue opere passate, in particolare per sensibilità proprio al precedente Si alza il vento che come questo affermava in modo più esplicito il suo vissuto. E sceglie un tratto che diviene via via sempre più ricco, quasi eccessivo, in un accumulo che nell’esplorazione del proprio universo si fa a tratti indecifrabile. Ma forse questa vertigine è una delle cose più potenti del film, perché afferma uno sguardo libero, che continua a sfuggire a qualsiasi etichetta e in un momento che impone alle immagini una narrazione sempre più lineare esprime invece il desiderio di libertà delle emozioni, dei significati da ricreare a cui ciascuno può trovare la sua direzione.