Il racconto di un’utopia realizzata tra amici e con la materia viva della vita
Alain Tanner Conversazione con Giaro Daghini, filosofo e tra i fondatori di Potere operaio, ha lavorato in diversi film del regista
Alain Tanner Conversazione con Giaro Daghini, filosofo e tra i fondatori di Potere operaio, ha lavorato in diversi film del regista
«Quando tutto sarà distrutto, bisognerà mettersi in cerca della bellezza». Con questo antico proverbio uzbeko finisce Paul s’en va, il film testamento che il regista svizzero Alain Tanner realizzò nel 2003, quando decise che avrebbe smesso di girare perché, diceva: «Fare un film chiede molta energia, e io non ne ho più abbastanza. Ma soprattutto, i problemi di finanziamento e distribuzione sono diventati una tale palude che non ho più la minima voglia di mettervi i piedi. Dopo questa decisione, mi sento tutt’a un tratto leggero».
Da allora e fino alla sua morte, avvenuta a Ginevra l’11 settembre scorso, a 92 anni, Tanner ha mantenuto la promessa. Ora, a parlare per lui restano quattro documentari e ventuno film. Con il primo, Charles mort ou vif (1969), vinse il festival del cinema di Locarno. Il secondo, La Salamandre (1971) lo fece conoscere al mondo. A Tanner interessavano le idee e la poetica, voleva mettere lo sguardo nella materia viva della vita, con budget ridotti e lavorando con persone che sentiva vicine. Una di queste è Giairo Daghini, filosofo, fra i fondatori di Potere Operaio e all’epoca professore all’università di Ginevra.
«HO CONOSCIUTO Tanner a metà degli anni Settanta – racconta Daghini – Durante la lavorazione di Jonas qui aura 25 ans en l’an 2000, (in Italia uscito come Jonas che avrà vent’anni nel 2000, ndr)mi chiese un cameo in cui un operaio emigrante italiano irrompe nell’ufficio di un direttore di banca, lo scaccia dalla sua poltrona e al suo posto mette un piccolo maiale. La mia partecipazione ai movimenti del ’68 si incontrava con le ragioni e le idee che attraversavano il cinema di Alain e su questo era nato il nostro interesse reciproco e la nostra amicizia».
«Il Maggio ’68 darà l’impulso al cinema di Tanner – continua Daghini – ma in modo singolare. Charles mort ou vif racconta di un impresario che se ne va dal capitalismo per una vita di erranza. un film-manifesto che mostra lo sforzo di un uomo per liberarsi dal suo abito sociale e per apprendere un nuovo modo di vedere. In La Salamandre affronta la questione operaia attraverso il personaggio di una donna libera che pone il problema di rifiutare ’Un mestiere dove si guadagna onestamente, vale a dire male, la propria vita e dove si subisce l’autorità da non importa chi’. Jonas, che è il quinto lungometraggio di Tanner e costituisce una sintesi del suo primo periodo creativo, non si svolge come una storia lineare, ma come un gioco di idee. L’immersione nei temi del tempo, della natura, del lavoro, dell’educazione diventano le immagini percutanti e ironiche di quel periodo. Le idee per Tanner sono il punto di partenza, ma è essenziale che si incarnino nei personaggi e si esprimano attraverso il viso e i corpi. Le retour d’Afrique è centrato sul territorio e sulla partenza, sulla relazione complessa del cineasta con la Svizzera. Qui il desiderio di fuggire riempie i personaggi come il sogno di andarsene per rifare e rinnovare se stessi, tematica che attraversa tutta l’opera di Tanner fino a Paul s’en va. Per questo film Alain mi chiese un altro cameo. Paul, il professore, è ripreso di spalle mentre cammina, uno studente lo chiama, lui si gira di profilo, e se ne va».
Con Les hommes du port (1994) Alain Tanner coinvolge in modo più radicale Giairo Daghini perché, ha raccontato il regista: «Era essenziale trasmettere l’esperienza, le lotte e la verità dei portuali di Genova in un tempo in cui la menzogna ricopre tutto».
«ALAIN – dice Daghini – era tornato a Genova dove aveva lavorato da giovane come scrivano di bordo su un mercantile. Voleva raccontare la Compagnia dei camalli, un collettivo creato sull’autogestione, un’utopia realizzata dove la forza del lavoro e il pensiero procedono insieme creando una cultura e un modo di vivere. Abbiamo passato diversi giorni con i camalli, io e Alain, che capiva l’italiano, ma preferiva non parlarlo perché, diceva: ’Non massacrare una lingua che amo’».
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