2016, in una stanza di passaggio della zona uffici del Museo nazionale preistorico etnografico Luigi Pigorini (oggi MuCiv) si intravede sotto un velo di plastica opalina il plastico di Sabratha, un sito archeologico libico. Appesa sopra i colonnati romani in miniatura una tela dipinta: mezzi militari italiani sfrecciano tra palme e architetture arabe.

NON SI TRATTA di oggetti pertinenti alla sfera del «preistorico» o dell’«etnografico», il plastico e il quadro ci parlano di noi, di un passato vicino. E infatti sono qui in deposito, il Pigorini li ospita ma non ne dispone, perché sono parte di un museo dissolto, l’ex Museo Coloniale, fondato nel 1923 per celebrare l’impresa coloniale e definitivamente chiuso al pubblico nel 1972.
Il «corpo» delle sue eterogenee collezioni è stato quindi smembrato e metaforicamente tumulato nei magazzini di vari musei romani: le pelli animali sono custodite presso il Museo di zoologia mentre gli oggetti di pertinenza militare sono stipati in un corridoio – chiuso al pubblico – del Museo della fanteria: una folla di manichini di ascari a grandezza naturale, coccarde, truppe giocattolo, perfino la mandibola di un soldato ucciso ad Adua, avvolta in un tricolore scolorito. I disegni realizzati dagli artisti italiani al seguito delle colonne militari sono invece custoditi alla Gam: il corpo dei combattenti nemici è sempre semi-nudo, quello delle truppe coloniali rigorosamente inquadrato nelle uniformi.
Questo sguardo che contrappone primitivo e moderno è presente anche nelle grandi mappe geografiche a tempera, conservate fino al 2017 nella vecchia sede (chiusa) del museo in via Aldobrandi: qui moderni piroscafi e aerei, dipinti nei minimi dettagli, fanno la spola tra Libia e Sicilia lungo rotte definite, nell’indifferenza dei pastori libici, confinati dal «mappatore» nell’altrove pre-moderno dell’entroterra, tra palme e cammelli. Poco lontano una sfilza di busti di bronzo, poggiati a terra, racconta la verità più violenta della colonizzazione: tra questi spicca il volto di Graziani, condannato per crimini di guerra in Italia, mai giudicato da tribunali libici o etiopi per i crimini ben più gravi commessi oltremare.

NELLA PRIMAVERA del 2017 il suo busto viene imballato insieme a quello degli altri meno noti artefici del colonialismo italiano, e caricato su un camion insieme alle mappe. Questi oggetti, risvegliati al presente, sono dunque in transito verso una nuova sede: un transito fisico attraverso Roma verso Eur (e il Pigorini), ma anche un transito istituzionale che attraverso la reggenza temporanea di un liquidatore traghetta questi «beni inalienabili dello stato italiano» dal Ministero degli esteri (e prima delle Colonie) a quello della Cultura.
Alcuni oggetti della collezione coloniale sono invece già «ospiti» dei magazzini del Pigorini dal 2011: qui le «maschere facciali» (calchi in gesso realizzati su volti umani dagli antropologi fisici), la cui violenza ci lascia senza respiro, coabitano con la presenza apparentemente innocua di copie in gesso di sculture classiche nord africane, come se l’archeologia non fosse stata un potente vettore ideologico della colonizzazione.
Analogamente ci appaiono come pacifiche le fattezze sessualizzate dei busti di donne etiopi, plasmati da artisti italiani al seguito dell’esercito (come se il madamato non fosse stata una pratica diffusa). All’improvviso però lo sguardo di quei simulacri ci sta interrogando, attraverso il velo di plastica protettiva che li avvolge. Nello scaffale successivo siamo invece sedotti dall’eleganza di scarpette in pelle di rettile: materia grezza africana, ingegno italiano. Per un attimo la fascinazione prende il sopravvento sul raccapriccio, sono così ben fatte e attuali. Ma già le orbite vuote del leopardo scuoiato ci fissano con rimprovero.

LA LENTE COLONIALE è ancora lì da qualche parte, incastrata nel nostro sguardo, la sua funzione è ancora attiva, e agisce eliminando la violenza dal campo visivo, quindi dalla coscienza. E forse proprio qui, tra gli oggetti della collezione dismessa, quella lente si distacca per un attimo dal tessuto organico con cui si è fusa, creando un disturbo, e tradendo finalmente la propria esistenza. Nella semi-oscurità degli scaffali affollati, in questo incubo pre-tassonomico, impariamo per la prima volta a localizzare quel dispositivo all’interno del nostro bulbo oculare, e a disattivarlo: l’accumulo museale si rivela ora nella sua nudità, come atto predatorio funzionale all’ideologia coloniale.
Nel frattempo, ai piani alti del museo, la collezione «ufficiale» continua a essere visitata dalle scolaresche, e anche se l’imbarazzante co-presenza di «preistorico» e «etnografico» ha ceduto il passo al più ragionevole Museo delle civiltà, l’esistenza stessa di quelle collezioni ci costringe nella stessa impasse di ogni museo etnografico europeo, dove la restituzione non è che il primo passo verso forme di riparazione più radicali e profonde.
Ma è nei piani bassi, tra criminali di guerra e altri orrori, che si può già attivare uno sguardo riflessivo, in questo museo parallelo che il passato ci offre su un piatto rovente, pronto a essere servito: un museo dell’uomo europeo, e delle sue barbarie oltremare.

SCHEDA

A Palermo si tiene la prima tappa del Transnational Restitution Movement a cura di Fondazione Studio Rizoma e GROUP50:50, per poi spostarsi a Lipsia, Lubumbashi, Kinshasa e Berlino tra il 2022 e 2023. Il raduno palermitano del movimento previsto dal 3 al 5
giugno è una chiamata per artisti, attivisti e pensatori dall’Europa e dall’Africa, per una riflessione collettiva attorno al tema Non è più tempo di negare. Tre giorni di incontri talks, concerti, proiezioni e interventi per presentare pratiche artistiche e politiche che intendono superare un’ottica colonialista, abbandonando la prospettiva occidentecentrica. E smontando la retorica della mission civilisatrice, sulla scia di un movimento che sin dagli anni Sessanta ha riunito a livello globale i militanti per la restituzione dei manufatti africani come pratica di decolonizzazione e che ha preso un nuovo slancio dopo gli ultimi avvenimenti, con la recente restituzione dei Bronzi del Benin. Eventi che non segnano la fine di un’epoca, ma l’inizio di una nuova storia e di un processo che seppure deciso ai più altri vertici diplomatici, deve essere necessariamente accompagnato dal dibattito della società civile e degli artisti. In questo contesto sono centrali nel programma  le lessons che coinvolgono artisti, professori universitari e attivisti da tutto il mondo. Fra gli ospiti, l’accademica francese Bénédicte Savoy, consulente di Emmanuel Macron e autrice del rapporto alla base dell’atto di trasferimento di proprietà dei 26 tesori reali di Abomey che la Francia ha restituito al Benin nel 2021; il congolese Emery Mwazulu Diyabanza, fondatore del Multicultural Front Against Pillaging, che nel 2020 è passato alle cronache come il Robin Hood del Congo per aver sottratto dal Musée du quai Branly di Parigi un manufatto trafugato dai paesi occidentali durante il periodo coloniale; Sepake Angiama curatrice ed educatrice alla Tate Modern di Londra, l’artista e antropologo Leone Contini, noto per la sua ricerca sulle tracce coloniali sparse nei depositi e negli archivi dei musei italiani, al margine tra arte e lavoro etnografico; Evelyn Acham, la voce più ascoltata del movimento Friday for Future in Africa; da Lagos l’artista Peju Layiwola, l’antropologa Caterina Pasqualino.