Ha vinto Milla, una delle folgorazioni dell’anno cinematografico – su queste pagine dal festival di Locarno – un film denso, sensuale, flusso di vita e di invenzione politica che la sua autrice, Valérie Massadian fa scorrere nelle esistenze dei due giovani protagonisti: un ragazzo e una ragazza nell’avventura complicata che è stare al mondo. DocLisboa, il festival del documentario «degenere» che dà appuntamento ogni anno al cinema internazionale nella capitale portoghese, è uno di quegli esempi di «festival per la città» che andrebbero studiati dai più (specie in Italia).

 

 

 

Senza tappeti rossi o divi riesce a riempire le sue sale con un programma che non ammicca e anzi scommette sulla ricerca e sulle tendenze meno formattate degli immaginari. Sono bravi i curatori, i due direttori, Cintia Gil e Davide Oberto, e tutto il gruppo di lavoro a costruire una dimensione che oltre il momento festivaliero si radica nella realtà dialogando, pure polemicamente, con quanto accade nel Paese: battaglie politiche contro leggi che uccidono il cinema d’autore, l’interpretazione feconda di un’educazione cinematografica in Portogallo ancora vitale – almeno rispetto a noi – a cominciare dal lavoro delle istituzioni (l’ottima Cineteca). E poi lo scambio con i giornali che sui film programmati nelle diverse sezioni – concorso internazionale, portoghese, retrospettive, quest’anno oltre il Quebec una magnifica personale dedicata alla regista ceca Vera Chytilova, con la proiezione della sua opera integrale, anche i titoli meno visti – scrivono e informano ugualmente al di là dell’appiglio glamour o del soggetto «forte».

 

 

Tra i premiati  c’è anche Ebrû Avci con Why Is Difficult to Make Films in Kurdistan. La storia è semplice quanto esemplare: la giovane regista decide di realizzare un film a casa propria, in Kurdistan, sul confine tra la Turchia e la Siria insieme ai familiari, la nonna, le altre donne della casa. Ha scelto di studiare cinema – «Perchè non insegnante o avvocato?» – e la sua presenza, ma soprattutto il gesto di filmare provocano reazioni anche inattese. Non si tratta tanto di sfuggire all’obiettivo o di mettervisi davanti, di parlare o di restare in silenzio, di essere sé stessi o di autorappresentarsi, ma di cercare nell’elemento quotidiano le ragioni della domanda che il titolo pone: perché è così difficile fare un film in Kurdistan, in una società maschile e comunque poco disponibile rispetto a ruoli non consolidati.

 

 

Se Ebru Avci si confronta con la dimensione del proprio vissuto, Filipa César prova invece a mettere in campo attraverso il cinema un «cortocircuito» di formazione tra Storia e presente. Artista oltre che filmmaker in Spell Reel (menzione speciale della giuria internazionale e premio Saramago) César lavora sugli archivi della guerra di liberazione (dal Portogallo, colonialismo feroce nell’era Salazar) in Guinea Bissau per riportarli al presente. Torna nei luoghi con uno schermo ambulante e proietta quelle immagini cercando di colmare il vuoto di una «dimenticanza« colpevole tra le generazioni più giovani messi all’improvviso davanti alla Storia.

 

 

All’origine del lavoro c’è il restauro fatto dall’Arsenal Institute for Film and Video di Berlino dove César vive dei materiali d’archivio con i filmati della guerra di liberazione, e una ricerca iniziata dalla cineasta nel 2011 insieme a Flora Gomes e a Sana na n’Hada; entrambi avevano studiato cinema a Cuba, un’arte che il leader dell’indipendenza Amilcar Cabral considerava un mezzo fondamentale nel processo di costruzione dell’immaginario collettivo – anche Chris Marker raggiunse questo gruppo di cineasti utilizzando del loro materiale nel suo Sans Soleil – e ripresero la lotta.

 

 

Cesar – che aveva rivisitato il paesaggio della guerra di liberazione in Guinea Bissau già col cortometraggio Conakry, il cui titolo è il nome del luogo dove Cabral venne assassinato – compie un ulteriore approfondimento nella sua riflessione su un uso non contemplativo dell’archivio e su come queste memorie possano continuare a essere nel tempo uno strumento indispensabile di resistenza.