Il Quirinale non può sfidare la maggioranza
Concordo con Villone: molte reprimende che si sono lette in questi giorni nei confronti di Salvini e Di Maio per aver osato impuntarsi a proporre per il ministero dell’economia una […]
Concordo con Villone: molte reprimende che si sono lette in questi giorni nei confronti di Salvini e Di Maio per aver osato impuntarsi a proporre per il ministero dell’economia una […]
Concordo con Villone: molte reprimende che si sono lette in questi giorni nei confronti di Salvini e Di Maio per aver osato impuntarsi a proporre per il ministero dell’economia una personalità non gradita al Quirinale si basano su un intendimento formalistico della Costituzione, sulla pretesa che la prerogativa presidenziale nella nomina dei ministri abbia una portata talmente auto-evidente che solo la protervia dei barbari ne spiega la messa in discussione. È un cattivo formalismo, che sotto l’inno alla «correttezza» pare celare piuttosto, concordo anche qui con Villone, la soddisfazione, o la speranza, di vedere fallire le chances di governo di forze non amate.
Occorrerebbe abituarsi a esecrare, piuttosto, l’uso strumentale della Costituzione, che la offende gravemente.
Nel diritto costituzionale sono poche invero le cose scontate e indiscutibili, tra queste men di tutte lo sono le attribuzioni che legano il presidente della Repubblica al governo, plasmate dalle prassi e profondamente influenzate dalla relazione che, di settennato in settennato, si instaura tra il presidente e i partiti. Negli eventi culminati domenica scorsa si potrebbe vedere abbozzata una nuova pagina dell’annosa e controversa storia che ha visto il presidente rivendicare in termini e contesti nuovi proprie prerogative, con l’effetto di ridefinirne l’estensione e la portata.
Così fu per il potere di grazia tra Ciampi e Napolitano, conquistato come potere proprio a rottura di una prassi che lo aveva sempre inteso come condiviso col guardasigilli; così è stato per la «sfera di riservatezza» innalzata da Napolitano davanti ai poteri di indagine dei pubblici ministeri; per non parlare del potere di conformazione della compagine governativa, che segnò con la nomina di Monti una autonomia senza precedenti del presidente rispetto ai partiti.
La dottrina osserva spesso che i poteri presidenziali sono cresciuti nella crisi del tradizionale sistema dei partiti; il fatto nuovo questa volta è che il presidente aveva di fronte a sé due compagini non solo dotate di seguito elettorale più che significativo ma anche nuove a loro volta, specialmente il M5S, rispetto ai partiti «tradizionali», o avvertite come tali. A questo contesto non sembra adattarsi una possibile spiegazione dell’ampliamento dei poteri del presidente, secondo cui egli, pur via via riconfigurando i suoi poteri, assolve sempre alla medesima e fondamentale sua propria funzione che è quella, come rappresentante dell’unità nazionale, di fornire prestazioni di unità, di coesione (favorendo la soluzione delle crisi, evitando paralisi), quando i partiti non ci riescono.
Stavolta il presidente ha piuttosto comunicato l’idea di una distanza, di una difficoltà di comunicazione, tra sé e i partiti, che, messi insieme, avevano la maggioranza in parlamento. Ciò ha sortito un certo effetto di delegittimazione nei loro confronti, ma ha anche comunicato un senso di reciproca estraneità.
I problemi della prassi che ha assistito alla crescita dei poteri presidenziali si sono manifestati tutti insieme: in una forma di governo che suppone sintonia e continuo dialogo tra presidente e partiti, un eccesso di distanza tra i due termini è patologico e va a spese di entrambi.
L’autorevolezza del presidente ha radici sostanziali nella sua relazione col sistema dei partiti, dal quale proviene, sicché ogni atto presidenziale è anche un test della sua stessa legittimazione. La crisi che condusse alle dimissioni di Leone è stata spiegata come l’effetto di un disallineamento tra il presidente, dati il suo background politico e le sue convinzioni, e le linee di sviluppo che i partiti avevano prescelto (si trattava allora di costruire il «compromesso storico», cui Leone era ostile).
Non si tratta dunque di fare l’esegesi dell’articolo 92 comma secondo ma di chiedersi: il richiamo all’Europa e ai suoi dogmi è in grado di fornire, a un presidente eletto da forze politiche negativamente travolte dalle elezioni del 4 marzo, una legittimazione alternativa sufficiente? L’euro è un valido riferimento per prestazioni di unità, da parte del presidente della Repubblica italiana? E soprattutto: in un sistema in cui esiste un costitutivo, dinamico legame tra il presidente e i partiti, possono essi andare ciascuno per suo conto, l’uno contro l’altro?
È cruciale allora che anche lo sforzo che si intravede, da parte di alcune forze politiche, e in particolare del Movimento 5 Stelle, che aveva inizialmente invocato l’impeachment, di calmare ora le acque non sia visto e raccontato come un dovuto ossequio alla Superiore autorità, cui anche i bambini cattivi alla fine pervengono, e neppure come un mero calcolo opportunistico, ma come l’affiorare della consapevolezza di esigenze profonde del nostro ordinamento. Un segno di maturità e anche di salute.
Dobbiamo poter festeggiare il 2 giugno una Costituzione che non è basata sul principio di autorità, ma sulla fiducia e dalla lealtà reciproca tra tutti gli attori, nella coscienza di ciascuno di essi di essere chiamati a far fiorire, non mai a custodire, la sovranità popolare.
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