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Il punto zero dell’architettura, fra terra e mare

Il punto zero dell’architettura, fra terra e mareda Florian Paucke, «Hacia allá y para acá» Biblioteca cistersense di Zwettl (Austria)

Workshop Il brasiliano José Paulo Gouvêa e l’argentino Javier Mendiondo hanno riunito molti architetti latinoamericani: per tracciare un nuovo baricentro delle città

Pubblicato 3 mesi faEdizione del 13 luglio 2024

Attorno al concetto di Cota Cero, come si definisce il livello del mare, il brasiliano José Paulo Gouvêa e l’argentino Javier Mendiondo, hanno riunito molti architetti latinoamericani. Quel punto zero non solo vuole indicare l’acqua come un baricentro per ripensare le città, ma segna anche la necessità di un lavoro dal basso, orizzontale e corale. È la riflessione che i due architetti hanno portato in questi giorni a Venezia, all’interno di Wave, il ciclo di workshop internazionali all’Università IUAV curato da Andrea Iorio e i cui progetti saranno in mostra fino al 18 luglio, nella sede dell’ex-Cotonificio e al Magazzino 6.

Voi parlate della necessità di progettare territori ibridi di terra e acqua. Cosa intendete?
JPG – Prima di tutto proviamo a mettere al centro i fiumi. Il primo esempio è il nostro Río Paraná, che nasce nella mia città, Sao Paulo, passa per Asunción in Paraguay e poi per Santa Fé, la città di Javier, altre città fino al Río de la Plata, dove si estendono Buenos Aires e Montevideo. È una enorme infrastruttura naturale e così dovrebbe essere vissuta. Il secondo esempio è Venezia, forse il più famoso al mondo di città di terra e acqua.

JM – Quando parliamo di Cota Cero, offriamo un doppio significato: da un lato è il livello dell’acqua quando tocca terra, ma quello che chiamiamo ‘livello’ è dinamico, perché l’acqua del nostro fiume sale e scende anche di otto metri. Dall’altro lato, Cota Cero è il punto di contatto tra le singole persone e la città, e in quel caso il ‘livello’ è dove pestiamo lo spazio pubblico. Il nostro camminare è una trincea di resistenza della sfera pubblica di fronte all’aggressione del capitalismo, che prova a privatizzare tutto e si appropria di tutti i bordi, che poi sono gli ecosistemi della natura e della società. Per questo Venezia è esemplare: i due ‘livelli’, quello tra acqua e terra e quello tra i singoli e la comunità, trovano uno straordinario punto di contatto. Questa invenzione urbana ha un valore universale.

Anche l’America Latina ha una storia di forme urbane in equilibrio tra acqua e terra. È famosa Tenochtitlán o le comunità anfibie lungo i grandi fiumi.
JPG – Certo, penso a quelle antiche comunità conosciute come ‘società idrauliche’, perché avevano delle straordinarie conoscenze tecnico-scientifiche per utilizzare razionalmente la poca quantità d’acqua a disposizione. Sono molto simili al caso veneziano. Ma i processi storici predatori, quelli che hanno annullato la sfera pubblica per far spazio solo a luoghi di consumo, hanno cancellato molti esempi virtuosi e altri sono in pericolo. È quel consumo di spazio che divora tutto e lo trasforma in feticcio, in fake, in farsa. Penso alla mia Rio de Janeiro o a Ipanema, a Copacabana, diventati luoghi internazionali del turismo di consumo e le persone sembrano viverci, come stessero partecipando a uno spettacolo teatrale.

Possiamo dire che la sfida di progettare terreni ibridi sia anche una metafora di un contemporaneo che sentiamo tragicamente paludoso?
JM – La nostra disciplina viene da un desiderio di progresso espresso dentro quella potente modernità che è stato il Novecento. Ma oggi, soprattutto in piena crisi climatica ed ecologica, mi sembra chiaro che dobbiamo cambiare sguardo. Eppure, a una grande e diffusa sensibilità si contrappone una potente spinta negazionista. L’estrema destra ha unito questa battaglia negazionista con la furia di privatizzare tutto. In Brasile l’abbiamo già visto con Bolsonaro, in Argentina lo stiamo vivendo ora con questa strana ultradestra che incarna il nostro presidente, che è arrivato a dire: se i fiumi vengono inquinati non è un problema, si possono privatizzare, sarà il capitale a risolverlo.

Ma in contesti politici simili, è ancora possibile pensare a politiche pubbliche del territorio?
JM – Io ho lavorato nel municipio di Santa Fé, che negli ultimi quattro anni è stato un laboratorio politico unico nella nostra regione. Era la prima volta per Santa Fe ad avere un sindaco socialista, non peronista né di destra. È una città di 450 mila abitanti che ha festeggiato i 450 anni di storia, una delle più antiche in America Latina. Ho diretto il dipartimento di sviluppo urbano condividendo un’idea di politiche integrali sull’ambiente. Abbiamo dimostrato che è possibile. Oggi in Argentina è davvero difficile parlare di politiche pubbliche, ma dobbiamo continuare a farlo, prima di tutto dall’università, dalla società civile, con un movimento dal basso verso l’alto. Significa anche questo Cota Cero.

JPG – Ti faccio un esempio. Uno degli obiettivi che ci siamo posti è la navigabilità dei fiumi urbani. Non è solo una questione di logistica, ma ci permette di costruire un argine al tentativo di privatizzare tutto. Quell’argine sono un’idea e una pratica di ‘beni comuni’. Per questo penso sempre che lavorare sui fiumi continua ad avere in sé qualcosa di sovversivo. Come ripeteva il grande architetto Paulo Mendes da Rocha, ‘l’acqua non rispetta le frontiere’, salta cioè la razionalità politica. Pensare ai fiumi come punti di connessione ed ecosistemi complessi e condivisi diventa allora una grande sfida per un futuro possibile. E dico possibile perché è un’immagine bella, positiva, potente. E noi abbiamo il dovere di creare un nuovo immaginario che sia proprio così, bello, positivo e potente.

JM – Le città attorno alle sponde dei fiumi sono ancora un luogo di disputa della società civile di fronte all’aggressione del mercato. Allora scegliamo il livello dello specchio d’acqua come punto centrale, perché per noi il fiume non è solo acqua, è terra e acqua, perché è necessario camminare per raggiungere i centri abitati, è necessario bere l’acqua. È qualcosa di vitale di fronte a fiumi contaminati e avvelenati. Dunque, come pulirli? Come riportare la vita? Come difendere la vita? Per farlo sono indispensabili tutte le conoscenze, dall’ingegneria ai saperi ancestrali, dall’architettura alla botanica alle persone che ci vivono.

Nel vostro manifesto, voi citate Claude Lévi-Strauss che in «Tristi tropici» parla dell’America come un luogo «non selvaggio, ma fuori posto». Pensate sia ancora attuale?
JM – Lévi-Strauss sembra spiazzato dal Sudamerica che incontra nel suo viaggio del 1935: non è quel posto selvaggio che immagina, ma un altro luogo che non riesce a ricomporre. Sì, quella sfida rimane attuale: il Sudamerica è preispanico, è indigeno, è europeo, è globale. Se a prima vista Buenos Aires o Sao Paulo ti sembrano solo europee, in realtà sottopelle ti accorgi che la musica, la cultura, la letteratura, la gastronomia, i riti, i saperi ti portano continuamente in luoghi diversi.

JPG – Penso all’idea di modernità in Brasile. Quando chiedevano a Mendes da Rocha cos’erano i suoi oggetti, lui rispondeva: «io non faccio architettura brutalista, ma brasiliana». Era un modo per rinominare la modernità dentro quel contesto.

JM – Il Sudamerica è il risultato di una accumulazione originaria, per dirla in termini marxisti, perché di fronte a una gigantesca rapina di risorse e al ridisegno persino del paesaggio umano, tutto si è rigenerato in modo inedito. E tutto, dalle città ai fiumi sono le conseguenze di quel progetto. Ecco perché, a un europeo, Chico Barque o Luis Alberto Spinetta non appaiono selvaggi, ma solo fuori posto.

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