Approdare alla scrittura di un romanzo con forti componenti di intrattenimento mettendo in scena personaggi quasi tutti animati da cattivi sentimenti è la prodezza che Javier Cercas si è voluto concedere, dopo avere passato gli scorsi anni a smentire il fondato luogo comune per cui i nobili sentimenti mal si conciliano con la qualità del romanzo. Tutti i lettori di Cercas ricorderanno che molto del successo di Soldati di Salamina era dovuto all’enigma nascosto in un beau geste: da una parte un gerarca falangista in fuga, dall’altra un giovane miliziano che lo rincorre per condurlo alla fucilazione; ma quando lo raggiunge, uno sguardo tra i due basta a farlo recedere dalla sua missione, così che il gerarca se ne va illeso.

Dopo otto anni, Cercas aveva rallentato il ritmo della sua prosa e esasperato la dilatazione dei dettagli, ma ancora una volta aveva deciso, in Anatomia di un istante, di far ruotare tutto il senso del romanzo intorno al nobile gesto di fermezza che inchiodò Adolfo Suarez al suo scranno, mentre gli altri parlamentari si buttavano a terra su comando dei militari che, il 23 febbraio 1981, avevano proclamato il colpo di stato.
Anche tra le pagine dell’ultimo romanzo, per la verità, lo sguardo salvifico di un poliziotto risparmia la galera a un improvvisato delinquente, ma a parte questo lampo di magnanimità tutto ciò che si svolge tra le pagine di Le leggi della frontiera (Guanda, traduzione di Marcella Uberti-Bona, pp. 394 euro 18,00) esibisce qualcosa di respingente: dalla vigliacca brutalità degli scolari medioborghesi, che imperversano sul più debole di loro infliggendogli orribili vessazioni, alla mancanza di scrupoli di una banda giovanile dedita al furto e alla rapina, alla squallida iniziazione al sesso consumata nell’anticamera di un cesso pubblico. Il protagonista, più o meno sempre nel ruolo della vittima, è Ignacio Cañas detto Gafitas, all’epoca dei fatti sedicenne nonché ribelle alle pretese di tutela della sua famiglia medioborghese, poi avvocato, e a trent’anni ancora di distanza voce narrante della stagione che il libro intende ricostruire: l’estate del 1978, in una Gerona cupa e clericale, non ancora emancipata dalle ombre lasciate in dote da Franco, che era morto appena tre anni prima.

La testimonianza di Cañas si alterna a quella dell’ex poliziotto che al tempo gli risparmiò la galera, e confluisce nel libro di un oscuro scrittore, attratto principalmente dal progetto di ritrarre quel fenomeno sociale che si esprimeva, all’indomani della fine della dittatura, nel proliferare di bande giovanili, capaci di tenere in scacco le città. La più famosa tra queste era la banda di Zarco, vera star del romanzo, anche lui sedicenne all’epoca dei fatti, sfrontato, crudele, apparentemente saldo nelle certezza della propria impunità. L’incontro di Gafitas con Zarco è di quelli fatali: per tre mesi il ragazzo di buona famiglia passa dalla parte dei criminali, per ragioni che hanno più a che fare con la mancanza di un atto decisionale che con la scelta consapevole di un destino. Uscire dalla trappola diventa pressoché impossibile quando l’inerzia iniziale che ha permesso a Gafitas di seguire la banda nei suoi primi misfatti si converte nella attrazione per la ragazza del capo, il mitico Zarco, appunto.
Sfuggente e tuttavia fedele, la giovane Tere accompagnerà il destino di Zarco dalla sua ascesa nelle cronache locali al suo approdo nella patrie galere, senza mai sparire dalla vita di Gafitas, nel frattempo diventato avvocato e impegnato nella assoluzione del vecchio amico con cui aveva condiviso una stagione di teppismo. Quanto a Zarco, se nelle prime pagine del romanzo era apparso come un «precursore», in quelle finali è ormai ridotto un «anacronismo».

Javier Cercas, che sarà venerdì 17 al Salone del libro è in tournée in Italia da due mesi, ma ha cominciato a parlare del suo libro solo nell’imminenza dell’uscita, qualche giorno fa.

Diversamente da quanto accade nei romanzi che le hanno procurato il successo, nella pagine di questo suo ultimo libro lei si è spinto molto più avanti nella finzione, sganciandosi dai fatti della Storia. Quale esigenza l’ha portata verso questa scelta?

Intanto mi domando: esiste la finzione pura? Io credo di no. A me pare che tutta la narrativa sia felicemente contaminata dalla realtà. Anche in questo mio ultimo romanzo i punti di contatto con i fatti realmente accaduti sono molti, a cominciare da ciò che riguarda la mia biografia: il protagonista è simile a com’ero io da ragazzo, vive a Gerona, la stessa città in cui sono cresciuto; ma non solo. Nel libro si parla di un fenomeno molto importante e altrettanto dimenticato che era stato tipico degli anni della transizione dalla dittatura alla democrazia, ossia il proliferare di bande criminali formate da giovani diventati rapidamente dei miti popolari, figure che per anni hanno nutrito una sorta di subcultura, invadendo i media per poi repentinamente scomparire. Tutto ebbe inizio alla fine degli anni ’70 e alla metà degli ’80 era già scomparso: fu una stagione effimera, che coincise con un mutamenti politici molto significativi, la stagione immediatamente successiva alla morte di Franco. Mentre mi stavo documentando per scrivere Anatomia di un istante, e dunque ero alla ricerca di fonti sulla politica «alta», mi imbattevo continuamente in quelli che erano, in realtà, gli argomenti davvero in grado di riscuotere il successo delle cronache.

Ne erano protagonisti assoluti i componenti di bande giovanili, che proprio per la loro capacità di incarnare le speranze e al tempo stesso le paure della Spagna in quegli anni di enorme cambiamento, funzionavano come eroi popolari. La loro fama era dovuta anche, se non soprattutto, a quel miscuglio di finzione e verità di cui consiste il giornalismo, un mixage il cui risultato si risolve in una menzogna, ma in grado di dire molto del paese e della società che l’ha resa possibile.La stesura di Anatomia di un istante aveva comportato la necessità di obbedire alla realtà dei fatti, e per me era stato come scrivere con una mano dietro la schiena: qualcosa di molto difficile e antinaturale, che al libro era tuttavia necessario. Perciò, poi, la reazione di questo ultimo romanzo, che risponde all’impulso di andare verso la libertà della finzione, ammesso – torno a dire – che esista una finzione pura.

In tutti i suoi romanzi più importanti lei cerca di isolare un istante significativo, magari affidato a un solo gesto, e intorno a quello imbastisce il filo del racconto che lo avvolgerà, allontanandosi dal suo centro e poi tornando a metterlo a fuoco. In questo ultimo romanzo il momento chiave sembrerebbe coincidere con lo sguardo del poliziotto che va a casa dei genitori di Gafitas per arrestarlo, ma vedendolo tanto spaurito identifica in lui il bravo ragazzo sviato per caso, e lo lascia andare. Lei è d’accordo sul fatto che è questo, nel suo romanzo, il momento cruciale?

Sì, anche se le ragioni che stanno dietro i gesti che lei ha ricordato sono difficilmente sondabili: non si sa bene perché – per esempio – il poliziotto lascia andare Gafitas. È per via di un malinteso, dirà più tardi, all’epoca in cui racconta quei fatti lontani. Ma nel romanzo c’è anche un altro momento essenziale, ed è quando quando Zarco viene inseguito e cade mentre Gafitas scappa. È un attimo dominato dall’ambiguità, dove prevale l’istinto, un momento in cui non è chiaro chi ha denunciato chi, e questo non sapere è molto importante.

Verso la fine del romanzo lei dice che in Zarco lottano la persona e il personaggio, ma vince il secondo. Forse ciò che rende triste questo «eroe» è la distanza da sé che deve tollerare per obbedire al suo ruolo, è questo che voleva dire?

Zarco è stato un personaggio molto complesso, perché è basato su due, forse persino tre persone reali, ma non risponde alle caratteristiche di nessuna di loro. Il suo è un ruolo creato interamente dai mass media ed questo che ne fa un personaggio così drammatico. Come tutti noi, anche Zarco è dotato di aspetti privati, ma il suo personaggio uccide la persona. È un dramma comune a tutti quei ragazzi che si sono ritrovati imprigionati in gabbie costruite intorno a loro dai media, e che hanno sacrificato il proprio sé, nascosto dalla maschera che veniva loro imposta. La maggio parte di questi ragazzi è morta molto giovane, Zarco è stato una eccezione, la variante spagnola di un mito che nel cinema ha avuto vari esempi, da Billy the Kid a quel bellissimo film di Carlos Saura che è In fretta in fretta. Il protagonista era un giovane morto in carcere, che non sarebbe diventato un criminale se non fosse stato vinto, appunto, dal suo personaggio. Tutti questi giovani sono stati vittime di una mistificazione: nel mio libro c’è una visione molto nera del giornalismo, perché il suo potere è ogni giorno più grande e bisognrebbe rendersene responsabili. Non tutti sono all’altezza dei miti che creano.

Torniamo per un momento a «Anatomia di un istante»: la sua costruzione ricorda il lavoro dell’analista che interroga la verità di un paziente, ne riceve un racconto pieno di omissioni, nonsense e ricostruzioni fallaci, poi lo ricompone nella scrittura del caso clinico, saturando i vuoti e ciò che non torna con un lavoro di interpretazione, e in definitiva offrendo del paziente una verità narrativa che non coincide con la verità storica ma può esercitare ugualmente una funzione terapeutica. Questo dislivello tra verità storica e verità narrativa è ciò di cui sembra consistere «Anatomia di un istante», è d’accordo?

L’analogia con il processo analitico mi è stata, in effetti, fatta notare. Per me Anatomia è un romanzo tendenzialmente privo di finzione, dove si racconta la realtà dei fatti e si cercano, allo stesso tempo, la verità storica e quella letteraria: un obiettivo teoricamente impossibile da raggiungere. Contrariamente alle Leggi della frontiera, e in parte anche a Soldati di Salamina, che cercano solo la verità narrativa, Anatomia insegue la verità aristotelica della poesia attraverso le figure della storia, sonda quei momenti in cui la realtà sembra avere un senso. Il compito della letteratura è manipolare la realtà per trovarle una forma, ma formalizzarla significa alterarla, optare per la menzogna. Scrivere Le leggi della frontiera ha voluto dire, per me, tornare alla possibilità di sperimentare tutto ciò che desideravo, ha voluto dire riandare alla adolescenza, una età della vita sulla quale non avevo mai scritto. In fondo è un Bildungsroman, eppure non lo avevo pensato così. Questo libro ha cambiato tutta la visione dei miei lavori passati e, più in generale, la mia considerazione stessa del romanzo, perciò mi piace. Ogni opera di finzione dovrebbe essere in grado di alterare la propria visione della realtà: questa mia ultima prova, in particolare, mi ha portato a scrivere un saggio che si dovrebbe intitolare Il punto cieco.

L’idea è che in tutti i romanzi c’è un punto attraverso il quale non si vede niente, e questo non vedere è esattamente la forma attraverso la quale il romanzo vede: questa oscurità è la forma in cui l’intreccio si illumina, questo silenzio è il modo in cui si fa eloquente. Tutti i romanzi che amo contengono una domanda essenziale: don Chisciotte è pazzo o non lo è? Sì, lo è, ma allo stesso tempo è l’uomo più saggio del mondo. Ecco il punto cieco, il punto che non trova soluzione. Tutti i romanzi camminano verso una risposta che non c’è, una risposta che non è mai inequivocabile, chiara, tassativa. Nelle Leggi della frontiera la domanda essenziale è di genere poliziesco: chi ha tradito Zarco? Chi è stato il delatore che ha denunciato la sua banda? Non si saprà mai, e questa ambiguità è decisiva. Se è stata Tere, la donna di Zarco (la amante, l’amica? non si sa) il romanzo va verso una direzione, ma se è stato Gafitas il senso è tutto diverso. Sta al lettore decidere. E proprio questo non sapere è la forma attraverso la quale il romanzo sa.