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Il processo penale e le cose di cui nessuno sa nulla

Giustizia Il ministro-sciamano- guardasigilli e il nuovo dibattimento reso eterno dall’eliminazione della prescrizione e costruito intorno alla presunzione di colpevolezza. Ovverogli errori (passati) dell'avvocatura e gli errori (attuali) della magistratura

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 29 novembre 2018

La rousseauiana indivisibilità della «volontà generale» si è rivelata solo l’ingenuo “mito di fondazione” di alcune recenti realtà politiche. Quel pensiero che guardava con sospetto al potere esecutivo ha subito una rapida torsione antidemocratica, trasformando la diffidenza per la separazione dei poteri nel disprezzo di ogni forma di controllo e ponendo “capi-popolo” al posto dei parlamenti. Autonominati interpreti anche delle realtà più complesse tradotte in slogan. Ne sa qualcosa il ministro-sciamano-guardasigilli che ascoltando l’anima della giustizia sa che urge un nuovo processo reso eterno dall’eliminazione della prescrizione e costruito intorno alla presunzione di colpevolezza.

Cose che non sembrano riguardare le nostre stesse libertà, cose di cui nessuno sa nulla perché la realtà del processo è una delle cose meno politicamente e socialmente coltivate in questo Paese. Che del processo penale ha imparato ad apprezzare solo la “gogna” mediatica delle manette, la proclamata «vergogna» delle assoluzioni o delle pene troppo miti, perché «in carcere non ci va nessuno» (salvo gli oramai quasi sessantamila ammassati nei nostri istituti). Un Paese dove invece le più clamorose prescrizioni degli ultimi anni sono maturate perché un fascicolo è rimasto nove anni in una cancelleria e perché un pubblico ministero ha coltivato una azione penale “contromano” rispetto ogni giurisprudenza consolidata.

È a questa costruita ignoranza ed a facili mitologie autoritarie, che valgono tanto quanto i deliri antiscientifici dei no-vax, che si affidano i nostri governanti, fondando le loro fortune mediatico-elettorali sulla sicurezza “percepita”, perché i dati sulla sicurezza “reale” smentirebbero ogni necessità di metter mano alla legittima difesa. Di fronte a simili pericolose derive, occorre interrogarsi sul come e sul perché la “cultura del processo” ci sia sfuggita di mano, e come sia potuto accadere che si sia perso quel legame che il processo penale avrebbe dovuto invece conservare con la società, accompagnandosi virtuosamente a quel contesto di istanze progressiste e di conquiste di diritti civili che sono nella storia del nostro Paese. Finito nel tritacarne emergenziale della lotta alla mafia ed alla corruzione, il processo penale, da dispositivo liberare di tutela delle libertà democratiche di ogni cittadino, si è trasformato in un affare losco, che riguarda i malandrini e i loro protettori legalizzati. Macchina repressiva che guadagna consenso solo se produce cautele e pene esemplari. Perso ogni contatto con l’idea di bene sociale condiviso, il processo è finito nel loop di quelle intramontabili ideologie autoritarie che avevano osteggiato il codice «Vassalli» e ne avevano azzoppato le più moderne virtù già nella culla.

Certamente l’avvocatura ha una grande responsabilità per le sorti del processo penale, ma l’errore non è stato quello di non averlo saputo difendere, ma di non averlo saputo “comunicare”. Di aver lasciato che i nostri giovani ministri crescessero alla scuola illiberale di chi vede nel processo penale un ostacolo alla affermazione della legalità e non un nobile strumento di tutela dello statuto democratico. Così che i più giovani non hanno trovato nei licei, nelle università, nella politica e nell’informazione una scuola alternativa, seria ed autorevole. Quei governanti-sciamani non hanno avuto bisogno neppure di leggere uno spartito scritto da altri, suonano a orecchio la musica allettante suonata dagli apici della Cassazione e dai palcoscenici giudiziari, il mood dei colpevoli che la fanno franca e della prescrizione difesa dalla lobby degli azzeccagarbugli.

Se forse è vero che non abbiamo saputo comunicare il processo come valore, non abbiamo certo sbagliato nel difendere il garantismo, non come slogan ma come metodo di confronto con la realtà, schierandoci in questo difficile momento senza tentennamenti, assieme alla comunità dei giuristi. Non tutta però. Anche qui quella nobile radice culturale di una magistratura che incarnava i valori della costituzione repubblicana, «custode delle garanzie» dei cittadini, sembra essersi stemperata anch’essa in un ingannevole “mito di fondazione”, lasciando confondere le propria voce con la musica di fondo di quella monocorde comunicazione fautrice di un processo autoritario e illiberale che ha oramai incantato l’intero Paese.

* Avvocato penalista cassazionista

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