Tempo di premi, tempo di fascette. Nel caso qualcuno ignori di cosa stiamo parlando, la fascetta (o manchette) è quella striscia di carta rosso fuoco o giallo girasole che avvolge la parte inferiore di un volume e a suon di iperboli cerca di convincere il (futuro ipotetico) lettore di avere tra le mani l’opera del secolo. Di «fascette per le allodole» parla scherzosamente Valentina Notarberardino in un libro recente, Fuori di testo, su cui varrà la pena tornare. Il punto importante, qui, è che a firmare questi elogi mirabolanti sono autrici e autori più o meno famosi, il cui nome dovrebbe rappresentare di per sé una garanzia per il nostro (futuro ipotetico) lettore.
L’invenzione non è recente. A escogitare questo sistema di promozione fu, pare, nel lontano 1855 Walt Whitman: il poeta, allora semisconosciuto, aveva fatto stampare a proprie spese la sua raccolta Leaves of Grass (Foglie d’erba). In tutto 800 copie, una delle quali venne mandata a uno dei più celebri intellettuali americani dell’epoca, Ralph Waldo Emerson, che ringraziò Whitman con una lettera entusiasta. «La saluto – scrisse tra l’altro Emerson – all’inizio di una grande carriera». Detto fatto, Whitman lanciò una seconda edizione che riportava in caratteri d’oro il prestigioso avallo.

Emerson non apprezzò quest’uso spregiudicato di un messaggio personale, ma poco importa. Era nato lo strillo, in inglese blurb, e avrebbe avuto lunga vita, a dispetto dei suoi detrattori – uno tra tutti George Orwell, che nel saggio In Defence of the Novel lo definì «robaccia disgustosa». Del resto, lo stesso Orwell ammise che sarebbe stato difficile sbarazzarsene: le case editrici – aggiunse – non possono mettere fine agli strilli «per lo stesso motivo per cui le nazioni non possono procedere al disarmo: nessuna vuole farlo per prima».
Forse, però, il momento è arrivato: sul Wall Street Journal Cody Delistraty si chiede se «è tempo di uccidere il blurb» e cita molte voci a favore dello strillicidio. Per esempio lo scrittore vietnamita-statunitense Viet Thanh Nguyen, vincitore del Pulitzer con Il simpatizzante, che per il suo ultimo romanzo The Committed (Il militante, in uscita anche in Italia per Neri Pozza) ha fatto di tutto per evitare il rito della fascetta: «Ammazzatele, seppellitele, danzate sulla loro tomba. Producono troppo lavoro, sforzo emotivo, senso di colpa – che le si scriva o le si chieda». O l’autrice satirica Fran Lebowitz che nella recente serie Netflix Pretend It’s a City, diretta da Martin Scorsese, racconta di avere strigliato un amico colpevole di avere definito in un blurb «un capolavoro» un libro poi rivelatosi orribile.

Né mancano gli «strillatori» pentiti, come lo scrittore Gary Shteyngart che dopo avere firmato circa 150 fascette in dieci anni, ha chiesto pubblicamente ammenda sul New Yorker, affermando che «la letteratura può progredire, e forse perfino migliorare, senza il mio blurb di massa».
Un buon sistema perlomeno per limitare i danni, racconta ancora Delistraty, è quello adottato da Mary-Kay Wilmers, cofondatrice e fino a pochi giorni fa direttrice della London Review of Books, che nella rivista aveva imposto una regola: tagliare dalle recensioni le parti che in seguito si sarebbero potute usare come blurbs («non sono mai belle frasi», la sua concisa spiegazione).
Ma davvero stiamo per assistere alla fine degli strilli? Probabilmente no, se Nguyen, dopo avere tuonato contro di loro, afferma che «hanno una certa utilità per mettere in luce autori potenzialmente emarginati». E anche senza questa ritrattazione, basta un giro in libreria per vedere, in un tripudio di rossi e di gialli, che la fascetta è qui, e non intende abbandonare il campo.