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Il presidente nel suo labirinto

Il presidente nel suo labirintoIl presidente Usa Donald Trump – ap

Usa Verso le elezioni presidenziali statunitensi

Pubblicato quasi 4 anni faEdizione del 1 novembre 2020

Il 9 novembre 2016 ci svegliammo increduli: come aveva potuto vincere un tycoon poco esperto di politica e molto d’imbrogli fiscali? Ma il più incredulo di tutti era Trump stesso: non contava di vincere davvero, mirava solo a risollevare il suo brand e le società in via di fallimento, come erano falliti i suoi casinò, la Trump University, la Lega di Football… Avendo sbaragliato tutti alle primarie e perso solo contro l’odiata Clinton, sarebbe tornato rinvigorito ai suoi affari, continuando a eludere il fisco e realizzando un suo sogno: costruire con l’aiuto di Putin una sfavillante Trump Tower accanto al Cremlino. Contro ogni pronostico, invece, era lui a entrare alla Casa Bianca. Sulla soglia lo ricevette Obama, che gli espose i dossier più spinosi e confessò poi di aver parlato al vento. Trovarsi lì è stato uno choc per Trump, ma anche una tragedia per il mondo perché – detto in modo crudo – «when America shits the bed, the rest of the world must lie in it» (quando l’America la fa in letto, il resto del mondo deve dormirci dentro).

Comunque Trump non era così stolido da sottovalutare la propria insicurezza. Che fare, allora, una volta entrato nel labirinto del Potere? Beh – concluse – se mi hanno eletto così come sono, agirò come sono. Eccolo, dunque, accentuare le sue pulsioni: razzismo innato, sessismo spavaldo, menzogna compulsiva. Fino a regredire allo stadio adolescenziale: fare a pugni con chiunque, abolire per puntiglio ogni decreto di Obama, negare dati inoppugnabili (pandemia, cambi climatici, crisi economica). Una regressione ben descritta da Axelrod, principale consigliere di Obama: «È come se un bambino avesse preso i comandi di un 747 e noi, legati ai sedili, pregassimo che il jumbo atterri da qualche parte. Ma intanto veniamo sballottati in turbolenze senza fine». Si prospettava all’orizzonte un quadriennio da incubo.

Eppure Trump aveva una via d’uscita: attendere il 20 gennaio, data d’insediamento, e all’atto di giurare («Giuro solennemente di fare del mio meglio per preservare, proteggere e difendere la Costituzione») aggiungere: «quindi rinuncio alla presidenza per non violare l’art. 1 della Costituzione stessa». Che dice l’art. 1? Alla sez. 9 vieta a chi ricopre cariche pubbliche di «accettare regalie o emolumenti» da agenti stranieri, di arricchirsi cioè grazie al proprio status. Fin dall’indomani, invece, emergevano palesi conflitti d’interesse: uno a due passi dalla Casa Bianca. Era il nuovo Trump International Hotel, subito prescelto da delegazioni straniere e non, per ingraziarsi il presidente-proprietario. Ogni giorno hanno depositato dollari a palate nelle casse della holding di famiglia. Certo, Trump aveva delegato ai figli la gestione del patrimonio, ma solo pro-forma: per almeno 400 volte ha incontrato ospiti paganti nei suoi vari hotel, golf e a Mar-a-Lago. Dopo Berlusconi il conflitto d’interessi può apparire irrilevante agli italiani, non agli americani.

Trump ha ignorato il consiglio offerto dal sen. Aiken ai militari che nel 1964 volevano andarsene dal Vietnam: «Declare victory and go home». Con le dimissioni sarebbe entrato nella Hall of Fame, continuando a guadagnare (o perdere) soldi ed evitando ciò che aborre di più: passare per un loser, un perdente. Tuttora potrebbe dimettersi, ma non lo farà: gli manca la preveggenza che ebbe Benedetto XVI. Perciò finirà inseguito dalla damnatio memoriae, dagli ispettori del fisco e dai magistrati di New York. Rischia la fine di Al Capone. A meno che… A meno che Biden non prometta sottobanco di concedergli il perdono presidenziale purché lui accetti l’esito delle urne senza ricorrere alla violenza. Un ricatto? E’ quanto si sta meditando nelle «segrete stanze» della capitale.

Oggi suonano sconsolate le parole di Obama: «Speravo per il bene del Paese che Donald volesse prendere sul serio il suo lavoro, sentisse il peso di quell’incarico, mostrasse riverenza per la democrazia affidata alle sue cure. Così non è stato». Obama sa di aver contribuito senza volerlo allo scontro attuale: un mezzo-nero alla Casa Bianca! La sua presidenza aveva seminato il panico fra i conservatori bianchi in calo demografico e trascinato i maggiorenti di quello che fu il Grand Old Party a schierarsi dietro un personaggio impresentabile. Turandosi il naso. E’ nata così una guerra fra due opposte anime della nazione che avrà il suo epilogo a giorni.

Per ora Trump è pronto a tutto pur di contestare l’esito delle urne. L’ha detto e ripetuto: «L’unico modo perché io perda le elezioni è grazie ai brogli elettorali». Una batteria di legulei e magistrati a lui devoti è pronta a dar battaglia contea per contea, grazie alla caotica diversità delle procedure. Il sottosegretario alla Sanità Michael Caputo sostiene che sarà Biden a contestare con la violenza la «sicura» vittoria del rivale: «Quando Trump si rifiuterà di cedere, gli avversari inizieranno a sparare. Squadracce d’assalto si stanno già addestrando in tutto il Paese». In realtà, si sa bene che i tumulti fanno il gioco della destra, e con 300 milioni di armi in mani private il Paese è una polveriera.

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