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Il presidente della porta accanto

Il presidente della porta accanto

Con la sua surreale montagna di parole, Renzi ha partorito il pisolino. E i segni incontenibili della noia si avvertivano anche tra i suoi senatori, increduli dinanzi a tanta vuotaggine. […]

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 25 febbraio 2014

Con la sua surreale montagna di parole, Renzi ha partorito il pisolino. E i segni incontenibili della noia si avvertivano anche tra i suoi senatori, increduli dinanzi a tanta vuotaggine. L’attenzione alla postura delle mascelle, il sorriso stampato in faccia non sono bastati per un discorso all’altezza del ruolo di governo che si accinge a ricoprire e in sintonia con il luogo istituzionale che l’ospitava. Ha citato subito la Cinquetti (al Quirinale il politico pop aveva evocato Celentano), il «ragazzo» presidente che gioca molto sull’età.

Ma, alla fine della sua disadorna esposizione, rimbalzano piuttosto le note amare di Battiato, quelle un po’ strazianti sulla povera patria. A Palazzo Madama, dopo la scialba prova oratoria, resta scolpita l’impressione ferrea del nulla, del pesante nulla però che si insedia al potere in un tempo di crisi che non lascia alcuno scampo.

Non basta mostrarsi scattante in bicicletta, sgommare in Smart nei vicoli di Roma, muoversi a piedi alla ricerca di un agognato bagno di folla per il politico che non ha neppure bisogno di scorta, per rappresentare davvero il nuovo. Il mito futuristico della velocità, la trita retorica del sindaco concreto perché estraneo ai palazzi romani, si convertono nel fiasco oratorio del ragazzo presidente. L’argomentare povero di Renzi stride visibilmente con la rivendicazione del ruolo della leadership.
Un discorso privo di un elevato senso politico, il suo, carente anche di connessione logica, a digiuno di sviluppi analitici, di indizi di autorevolezza. Degno della povertà culturale di un tempo di grande decadenza, il suo eloquio privo di guizzi e senza pathos (non evocano una connessione sentimentale il richiamo alle sventure del povero Lorenzo o la telefonata all’amico disoccupato) rivela la follia profonda di un paese che mescola comico e tragico, leggerezza e senso della caduta alla ricerca di un capo carismatico risolutore.
Un raro momento di verità si tocca in aula quando Renzi ricorda che domenica andando alla messa una parrocchiana lo ha avvicinato e gli ha detto «se lo fai tu, tutti davvero possono diventare presidenti del consiglio». Ecco, nell’episodio raccontato, si trova tutta la subdola forza ma anche la debolezza della strategia retorica prescelta dal nuovo segretario fiorentino. Egli punta sul facile meccanismo della identificazione immediata di un capo con il pubblico (da qui anche la demonizzazione della burocrazia, la burlesca raffigurazione della macchina statale).

E, per accorciare visibilmente la distanza del capo con la folla, evoca la verità che si disvela pienamente non tra le élite e gli odiati poteri costituiti ma nei bei «mercati rionali». Così ottiene un consenso passivo di un pubblico disarmato conquistato alla causa per l’accantonamento delle soglie di vigilanza critica. Chi ascolta è coinvolto ad arte nell’illusione che dal leader nuovo nulla ha da temere. Lui non è un potente estraneo (quelli sono stati già rottamati) ma è un amico del popolo, un giovanotto alla mano da cui è vano difendersi con strategie cognitive vigili, non è un politico separato ma un corpo che si muove e sente le cose proprio come uno di noi.
Questa penetrazione negli umori della folla confidando nei meccanismi mistificanti della identificazione assoluta, è il corredo tipico del repertorio comunicativo del leader populista. Il quale però, una volta giocata la carta della sua vicinanza organica con la gente, ha bisogno pure di mostrare i segnali della sua superiorità di capo rispetto agli altri. Senza rendere percepibile la sua spiccata differenza, cioè senza mostrare quelle doti politiche uniche che sole giustificano una diffusa credenza carismatica circa le sue attribuzioni di potestà, la comunicazione non funziona. Nessuno è riconosciuto come leader da collocare al comando solo perché è un ragazzo che balbetta come gli altri, e tutti chiamano Matteo.

Ecco, il guaio del poco lusinghiero passaggio parlamentare di Renzi risiede nel fatto che a lui riesce agevole con le metafore, con i simboli, con le immagini discendere rapidamente al livello pigro dell’uditorio post-ideologico odierno. Ma, purtroppo, non ha in dote le risorse politiche necessarie per farsi apprezzare come uno statista autentico che è capace di pensare qualcosa di più profondo che la bellezza del «rammendare le periferie».

La prima regola della retorica aristotelica classica è quella di modulare le corde del discorso a seconda dei caratteri del destinatario. E poiché il senato della Repubblica non è ancora la Leopolda, il chiacchiericcio di un discorso soporifero e non strutturato non si addice a un pubblico di politici esperti che non si lascia certo catturare dall’annuncio che ogni mercoledì farà visita a una scolaresca.
Dietro il clamoroso fiasco del discorso di Renzi, da una parte si nasconde l’esaltazione ingiustificata delle proprie doti nell’improvvisazione brillante ritenuta di per sé in grado di sconfiggere ogni ostacolo. E, dall’altra, si occulta il dispregio per la qualità della sede istituzionale che ospitava l’evento e che si attendeva un discorso dalla rigorosa struttura formale, dallo sforzo interpretativo elegante, come si conviene in un passaggio istituzionale finalizzato alla fiducia del governo.

Salito al potere senza aver mai parlato in una assise di partito o in un’aula parlamentare, insomma al cospetto di un pubblico che sa di politica, il disegno retorico di Renzi naufraga nel giorno più importante. Forse le sue inadeguate parole mostrano già quello che Heidegger chiamava il carattere evocativo dell’inizio.

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