Lo scorso fine settimana a Urbino, in uno degli incontri del Festival del giornalismo culturale, rappresentanti di testate quantomai diverse fra loro – Repubblica, Il Giornale, Domani e sì, pure il manifesto – si sono trovati d’accordo almeno su un punto: il giorno in cui viene assegnato il Nobel per la letteratura è uno dei rari momenti di suspense nella vita altrimenti piuttosto placida delle redazioni culturali. Nell’arco di poche ore, tra le 13, quando la porta dell’Accademia di Stoccolma si apre e il nome viene svelato, e la chiusura del giornale (parliamo ovviamente di quella categoria in via di estinzione che sono i quotidiani cartacei) bisognerà avere trovato una o due firme competenti che sappiano inquadrare in un articolo di sei o settemila battute la figura del premiato o della premiata per un pubblico che nella maggior parte dei casi fino al giorno prima ne ignorava l’esistenza.

Così è stato per Jon Fosse, il vincitore del 2023, autore sconosciuto ai più, anche se in realtà tradotto in italiano da diverse coraggiose case editrici fin dai primi anni Duemila, come si può scoprire facilmente consultando quella istituzione meravigliosa che è il Catalogo del servizio bibliotecario nazionale. Fosse diventerà adesso il bestsellerista che non è stato finora? Se lo augurano naturalmente alla casa editrice La Nave di Teseo, che nel 2019 ha avviato la pubblicazione della Settologia dello scrittore norvegese e se lo augura il colosso Penguin Random House che il giorno stesso del Nobel ha annunciato di avere acquisito cinque titoli di Fosse per la Spagna, il Portogallo e il Brasile.
Ne dubita fortemente, però, una persona che pure avrebbe tutti i motivi per sperare: Silvia Bardelás, fondatrice insieme all’amica Beatriz González di una piccola casa editrice madrilena, De Conatus, per la quale sono usciti già diversi libri di Fosse: «È un autore fuori dai circuiti commerciali, che vende poco ed è più adatto a un marchio indipendente», ha detto in sostanza Bardelás a Caio Ruvenal del País.

Solo i dati di vendita fra qualche mese ci diranno se queste previsioni pessimiste, o semplicemente disincantate, troveranno conferma. Ma proprio sullo stesso El País, il giorno prima che venisse assegnato il Nobel, è uscito un articolo di Sergio C. Fanjul, giornalista culturale di grande acutezza (e quindi spesso citato e saccheggiato in questa rubrica), che in qualche modo avvalora le parole di Silvia Bardelás. Dopo avere passato in rassegna le alterne fortune di diversi vincitori del più noto premio letterario nel mondo, Fanjul arriva a conclusioni che vale la pena di riportare per intero: «Studiare l’impatto dei Nobel per la letteratura è, in un certo senso, un modo per studiare i meccanismi della fama letteraria (e non) e di ciò che intendiamo per posterità. Scopriamo che la tanto desiderata trascendenza, l’incisione del nostro nome a fuoco sulle pareti della Storia, non è un traguardo eterno e assoluto: dipende dai tempi e dalle geografie. Autori consacrati in un’epoca possono cadere nella fossa dell’oblio in un’altra (e quindi non erano così ‘consacrati’), autori dimenticati possono essere recuperati, autori che in alcuni paesi fanno parte del canone indelebile in altri sono insignificanti». Amara, terribilmente vera, e non circoscritta all’ambito della letteratura, la chiusa dell’articolo: «Tutto questo ci insegna una lezione: anche se si assapora la dolcezza del successo qui e ora, memento mori».  Per fortuna, per quel poco che abbiamo imparato di Jon Fosse in questi giorni, lui lo sa già.