Politica

Il premier cerca il primo turbo-sì

Il premier cerca il primo turbo-sìL'ex segretario Pd Pier Luigi Bersani

Democrack Minoranze Pd pronte alla battaglia. Ma il leader vuole portare la riforma al vertice Ue dell'8 ottobre. E offre lo scambio: approvazione rapida al senato e poi qualche ritocco alla camera. Bersani: attenti, la corda si può spezzare

Pubblicato circa 10 anni faEdizione del 20 settembre 2014

Il video diffuso in serata su youtube dove Renzi a brutto muso sfida «il segretario Camusso» (ciglio e dito alzato, «ma voi dov’eravate quando si è prodotta la più rande ingiustizia che c’è in Italia, quella fra chi il lavoro ce l’ha e chi non ce l’ha?») fuga ogni dubbio: sul lavoro il segretario-premier è pronto allo scontro. Con la sua sinistra interna per interposta Cgil.

Non che qualcuno avesse dubbi. Ieri mattina in una riunione improvvisata alla buvette della camera, i due ex segretari Bersani e Epifani hanno fatto il punto con il giovane Alfredo D’Attorre. Poco dopo Bersani va ai microfoni di Radio Montecarlo e pronuncia un mezzo proclama: «Saranno presentati molti emendamenti, non solo sul reintegro in caso di licenziamento ingiusto, perché se l’interpretazione è quella sentita da Sacconi e altri,allora non ci siamo proprio. Andiamo ad aggiungere alle norme che danno precarietà ulteriore precarietà, andiamo a frantumare i diritti, non solo l’art.18 e allora sarà battaglia». Bersani, come sempre, apre la porta al dialogo: «La corda si può spezzare? È possibile, ma spero di no. In questi giorni c’è spazio per riflettere e per fare una riforma seria che riconosca i diritti dei lavoratori e non li cancelli o li frantumi. La riforma ci vuole ma deve essere seria e non certo una bandierina da sventolare di fronte agli elettori o all’Europa».
L’Europa, ecco. Il governo vuole portare il jobs act – la quasi cancellazione dell’art.18, per dirla chiara – approvato almeno in prima lettura alla conferenza Ue sul lavoro che si terrà l’8 ottobre a Milano. Per questo i renziani offrono alle minoranze interne un patto: rapido sì al senato entro la prossima settima. Poi «le modifiche si faranno a Montecitorio dove a presiedere la commissione c’è un signore che si chiama Cesare Damiano e qualche garanzia su reintegro e demansionamento, che sono i due punti caldi, la può dare». Restando il testo così com’è, i margini di miglioramento sarebbero molto ampi, e le minoranze Pd potrebbero portare a casa qualche risultato tangibile che non le presenti come al solito asfaltate da Renzi.

Ma il «piano» dei renziani sottovaluta le suscettibilità dei senatori. Anche quelli del Pd: dopo gli scontri e i ’canguri’ sulla legge Boschi, sanno di essere considerati dead men walking non hanno una gran voglia di fare la parte dei rassegnati ’schiacciabottoni’.
Quanto ai tanti rivoli della sinistra interna, in queste ore si sta formando un coordinamento che comprende quasi tutte le variegate sinistre Pd, dai riformisti all’area Chiti-Civati ai (pochi) cuperliani ai bindiani. Il voto di giovedì in commissione è andato liscio ma solo perché la chitiana Erica D’Adda si è fatta sostituire, per non votare no. Scontro rimandato.

Da ieri le senatrici Cecilia Guerra e Maria Grazia Gatti scrivono gli emendamenti. Lunedì ci sarà una riunione dei riformisti al senato. Martedì si replica alla camera. Mercoledì parte la discussione in aula a Palazzo Madama. Prima, si riuniranno tutte le minoranze, meno – forse – i giovani turchi, critici sulla legge delega ma convinti che il presidente del consiglio «ascolterà il suo partito», come ha detto ieri Matteo Orfini al manifesto.

Nell’area dei riformisti non ci credono neanche un po’. E per il momento il tono d’attacco alla Cgil del premier dà loro ragione. In più non si fidano. Il timing proposto da Renzi sa di fregatura. «Hanno convocato la riunione di direzione sul jobs act il 29 settembre, ma il voto del senato sulla legge delega ci sarà prima. Francamente non capisco, discuteremo di una legge che abbiamo già approvato in prima lettura?», si chiede Alfredo D’Attorre. «I tempi sono stretti. E comunque il passaggio decisivo è quello della camera», spiega un dirigente dem. Ma certo, questa spiegazione non metterà i senatori nella migliore disposizione d’animo. «La delega in bianco è inconcepibile», riattacca D’Attorre, «siamo partiti per la Germania ed ora ci ritroviamo in Spagna. Fra vaucer, demansionamento e art.18 siamo 3 a zero per Sacconi. Dobbiamo fare quello che non abbiamo consentito a Berlusconi e Monti, reggendo l’urto quando eravamo all’opposizione oppure c’era lo spread alle stelle?». D’Attorre però è un deputato, e alla camera si vedrà poi.

Al senato, dove arriva il primo voto, fanno già i conti. Nel gruppo Pd i renziani sono la maggioranza, ma se le sinistre decidessero (se, sottolineato) di votare no, la legge delega passerebbe con i voti determinanti di Forza Italia. Un’eventualità che Renzi deve evitare. Lorenzo Guerini, il saggio ’ministro degli interni’ del partito, butta acqua sul fuoco: «Ritengo che si possa trovare un punto di incontro cercando di capire che le scelte che faremo, e la loro tempestività, sono importanti per noi ma anche per la credibilità del Paese in Europa». Anche Debora Serracchiani stavolta usa toni concilianti sulla «reintegra» in caso di licenziamento discriminatorio.

Bello sforzo: il ministro Poletti lo ha già assicurato, e comunque per la sinistra questa linea del Piave è troppo arretrata. Il rischio di una nuova beirut a Palazzo Madama c’è. Tanto più che ieri circolava l’idea di un voto di fiducia, per fare presto e tacitare il dissenso. Si fa per dire. «Io sono per non votare la fiducia su questa delega in bianco», attacca Corradino Mineo. «Se mi vogliono cacciare mi caccino».

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