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Il pregiudizio preso a calci

Il pregiudizio preso a calci

Florence Queer Festival La storia della "Revolution Team" di Firenze in un documentario di Matteo Tortora

Pubblicato circa 6 anni faEdizione del 6 ottobre 2018

In primo piano la bandierina bianca del calcio d’angolo e dietro, fuori fuoco, un nugolo di bambini, di cosiddetti «pulcini» che giocano, lontani e inafferrabili, in realtà quasi invisibili, trasparenti; nel mentre, nello spazio sonoro intorno a loro, un’orda di voci stridenti e incattivite, quelle dei genitori che litigano, inveiscono e se la prendono con l’allenatore.
Ecco, fissiamo questa sequenza, perché si rivelerà cruciale nello sviluppo della ricerca portata avanti da Il calciatore invisibile, il documentario di Matteo Tortora, proiettato ieri in anteprima alla XVI edizione del Florence Queer Festival, sempre con la direzione artistica di Bruno Casini e Roberta Vannucci. D’altra parte, per introdurre il film è veramente difficile non farsi attrarre anche da una citazione di Marcello Lippi, incastonata come una vera perla nella tessitura del documentario e datata soltanto 2009: «Onestamente credo che tra i calciatori di gay non ce ne siano. In quarant’anni non ne ho mai conosciuti, né nessuno che ha lavorato con me in tutto questo tempo e in tante squadre me ne ha mai raccontato».
Che dire? Dove queste parole dell’ex C.T. della nazionale italiana disvelano su quali chiusure, su quali abissi di paure, reticenze, omertà, pregiudizi sia strutturato il sistema e in quali ordini di resistenze ci si debba imbattere volendo approfondire il discorso omosessualità e calcio, Tortora sceglie di aprire il suo sguardo di filmmaker sui volti aperti e radianti dei giocatori della Revolution Team una squadra amatoriale di Firenze, composta da calciatori gay e gay-friendly.
Sono Gabriele, Lorenzo, Marco, Claudio, Nicolò… con i loro occhi e con l’energia agonistica che fluisce dai loro corpi nell’attimo di un passaggio o di un dribbling, a narrarsi e a srotolare il filo di un racconto pionieristico: dal primo aggregarsi alla squadra col desiderio di farsi nuovi amici, al sorgere della consapevolezza di dover contribuire, via via che la Revolution cresceva e aumentava la sua notorietà nel territorio, all’impegno civile contro l’omofobia e contro tutte le discriminazioni.
DIFFICOLTÀ
Certo, l’orientamento sessuale dovrebbe in teoria essere assolutamente ininfluente se si parla di sportivi, e come tale, da non porsi neanche lontanamente la questione del dichiararsi o meno. Di fatto però, come emerge chiaramente dalla rete di apporti e di riflessioni tessuta dai giocatori coinvolti nel documentario (ci sono anche alcuni componenti delle squadre avversarie della Revolution nel torneo che questa organizza ogni anno), e da alcuni addetti ai lavori più illuminati, come Cesare Prandelli, anche lui ex C.T. della nazionale, Billy Costacurta, ex calciatore e dirigente e Andrea Di Caro, giornalista de La Gazzetta dello Sport, le cose sono assai più intricate e complesse.
Intanto, da parte dei giovani ragazzi omosessuali, a prescindere se abbiano subito attacchi omofobi, c’è spesso una difficoltà intrinseca a rapportarsi al machismo del mondo del calcio. Perché, se in un’altra citazione di Angelo Pezzana, storico e attivista, è lo sport in generale a essere visto come «l’ambiente più retrogrado di tutti», si può aggiungere che il calcio col suo sistema di valori, codici e linguaggio è uno dei bastioni su cui la cultura maschilista si è felicemente poggiata negli ultimi centocinquanta anni e oltre. Dunque qualcosa di enorme, un pachiderma atavico (e ci riferiamo solo al calcio moderno). È per questo che tanti ragazzi omosessuali se ne ritraggono, temendo prima ancora che il confronto con l’allenatore e coi tifosi, quello con il resto della squadra, coi compagni (non a caso i coming out avvengono per lo più negli sport individuali), specie in quel luogo senza filtri e disturbante che, coi suoi discorsi sessisti e obbligati, può essere lo spogliatoio.
INVISIBILI
Proprio lì, tra quelle mura tanto dense di aspettative e di significati, Matteo Tortora immagina, solo e sempre di spalle, senza volto e senza nome, il suo «calciatore invisibile»: quanti come lui, in Italia e nel mondo? Voce over (che avrebbe potuto essere più fluida), e il dissidio interiore di chi da un lato teme che dichiararsi possa pregiudicargli la carriera o farlo finire nello sprofondo della emarginazione, mentre dall’altro si lacera per non poter dire sé stesso apertamente.
Il tutto scientificamente preordinato fin dall’infanzia – ricordate la sequenza dei pulcini? -, fin dalla biforcazione dicotomica dei giochi: alle femmine le bambole, ai maschi il pallone, e se sei maschio e non ti piace il calcio, fin da piccolo sei… e giù l’epiteto più vieto che si possa immaginare in questo ambito. Ecco perché si tratta della strutturale profonda trasformazione di una società, ecco perché un allenatore deve essere, come dice Prandelli, anche un educatore.
Innanzi a tutto questo, con la sua levità e la sua apertura – no a tornei separati, sì a squadre miste di ragazze e ragazzi, di etero e di gay – la Revolution Team frantuma i pregiudizi in campo con l’ironia («alla fine gli avversari scoprono che non giochiamo mica coi tacchi alti, ma con le scarpette da calcio»), e disegna liberatori scampoli del calcio del futuro.

 

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