Il Praz di Manica, un tragico moderno annidato nel gusto
Raffaele Manica, "Praz", edizioni Italo Svevo Nel piccolo libro, costruito un po' secondo i principi compositivi del Praz editore di se stesso, Raffaele Manica evidenzia, più che il solitario paguro di via Giulia, il diagnostico dell’inquietudine sprigionata dal rapido mutare degli anni
Raffaele Manica, "Praz", edizioni Italo Svevo Nel piccolo libro, costruito un po' secondo i principi compositivi del Praz editore di se stesso, Raffaele Manica evidenzia, più che il solitario paguro di via Giulia, il diagnostico dell’inquietudine sprigionata dal rapido mutare degli anni
Innanzi ai quadri di Rubens – scriveva Praz – si indugia quanto basta per fare un rispettoso segno di riverenza, non di più. Il Professore, come usavano chiamarlo gli scaramantici, amava Vermeer, gli interni degli olandesi, le conversation pieces e gli acquarelli dell’Ottocento, in letteratura la sua predilezione andava a Montaigne, a Lamb, a Beerbohm, ad artisti che non videro il mondo sub specie aeternitatis ma dall’angolatura della propria finestra, in una prospettiva che parrà augusta soltanto agli angusti di spirito. Esistono geni universali come Dante, Goethe, Omero o Balzac ma ne esistono anche altri, come Montaigne, sulle cui pagine si torna per cercarvi «frammenti e ritagli della Verità». A questa specie d’ingegni sentiva di appartenere anche Mario Praz.
C’è questo piccolo libro oggi a chiarircelo, Praz di Raffaele Manica (Italosvevo, «Piccola biblioteca di letteratura inutile», pp. 88, euro 12,50), che comincia col ritrovare nella voce Saggio, redatta dallo stesso Praz a metà degli anni trenta per l’Enciclopedia Italiana, qualcosa di simile a una confessata genealogia familiare. Il saggio «composizione relativamente breve e di carattere spigliato che investe un soggetto, senza pretesa di esaurirlo» può vantare antenati nelle epistole di Cicerone e di Plinio e in quel modello latino, anzi attico, di studiata negligenza, o negligentia diligens, che dalla retorica antica fu trasferito alla società cortigiana del Cinquecento. «Montaigne finì di dare al saggio quel deciso carattere di esposizione delle proprie opinioni, sia pure non ortodosse e dettate da idiosincrasie personali, sovente anzi di momentanei capricci, che dovevano essere così fecondi di svolgimenti»; in questa famiglia andranno enumerate le più belle lettere di Mme de Sévigné e di Mme du Deffand, parte dell’epistolario di Horace Walpole e, più di tutto, gli scritti di Addison per «The Spectator», coi quali il saggio acquistò un nonsoché di neopalladiano equilibrio. E se, nei suoi ulteriori dipanamenti, alla forma saggistica sarebbero in parte mancati «quei caratteri di affabile intimità col lettore, di dignità, quasi di guida spirituale laica, di serenità, d’illuminato e arguto giudizio che contraddistinguono lo Spectator di Addison e il Rambler di Johnson», non avrebbe per questo cessato di offrire rappresentazioni delle cose sotto una particolare incidenza di luce.
Piazza Navona, solenne o gaia
C’è un passaggio, fra quelli scelti da Manica, che descrive in rapporto appunto al mutare della luce un luogo assai familiare a chiunque sia passato dalla Città Eterna. Si tratta di Piazza Navona, il cui carattere, per Praz, dipende dall’ora del giorno in cui la si guarda; e ciò in conseguenza della «sua orientazione nord-sud, che permette l’illuminazione mattutina del lato monumentale, e la pomeridiana del lato meno illustre, ma coi balconi e le terrazze fiorite, sicché il mattino la piazza è solenne e il pomeriggio è gaia». Anche i libri, i mobili e i quadri subiscono, come le piazze, questa sorte anamorfica. I saggi del grande anglista non raccontano il mondo come è ma come appare sotto lo sguardo di sensibilità peculiari: Machiavelli in Inghilterra, i monumenti antichi in prospettiva neoclassica, la Spagna vista dai romantici, il rococò dei tropici, le ville palladiane nel Nuovo Mondo, Roma attraverso i secoli. Nell’opera di artisti e scrittori lo interessa, allo stesso modo, l’incidenza del gusto sull’immagine che essi finiscono per elaborare delle cose. Così in Winckelmann egli vede il tipo del nordico sentimentale affascinato dall’androginismo della statuaria antica; in Piranesi il veneziano, che sembra osservare gli archi e le terme romane quasi nel perturbato riflesso della laguna. Ci si può chiedere, come Praz nel Gusto neoclassico, quale effetto facciano i nitidi propilei greci, se, staccati dalla bionda luce mediterranea, sono trasferiti in latitudini immiti, come quelle pietroburghesi, o, ancora, in che misura le sfingi dorate dello stile Impero si adattino al gusto moderno: a taluni potranno sembrare interrogazioni lambiccate, quasi seicentesche, eppure in tutto ciò di autenticamente barocco non c’è che il senso di inquieta instabilità prospettica. Questa capacità che egli sentì negli oggetti di acquistare un senso inatteso col variare dello sguardo e della luce può far pensare ai lavori di maestri come Rembrandt; Manica ha trovato un’analogia più calzante, quella con le tele di Morandi: «A seconda dell’estensione di un tratto, della disposizione, diciamo pure del tratto di luce al quale è esposto l’oggetto o il nuovo oggetto che si affianca al primo, l’insieme si definisce come luogo di relazioni: gli oggetti contano in sé e per la sintassi che li unisce, che li coordina o subordina fra loro, al modo in cui le forme delle bottiglie di Morandi cambiano di sostanza da una composizione all’altra nel gioco della luce e dell’esposizione».
Che libri di Praz siano per lo più «nati da un gioco di scomposizione e ricomposizione secondo prospettive diverse, tempi mutati, cambi di stagione e di gusto» non può dunque stupire. Un delicato scetticismo estetico traspare dalla predilezione per quella effimera congregazione di senso che è il gusto. Egli lo amò più del «bello», idolo immobile e troppo fragrante d’ambrosia; e se, credo, avesse potuto scegliere un destino fra quelli antichi, non avrebbe mai optato per quello di Ganimede, rapito in cielo per far da coppiere agli dei. L’immortalità, come ci mostrano le tribolazioni dell’Olandese Volante o dell’Ebreo Errante, può essere scomoda. Il suo affetto andava alle arti minori, impastate di terrena creta, alle conversation pieces, agli acquarelli d’interni, alla ritrattistica Biedermeier, dove più evidente è il sottile gioco di luci che il tempo fa sulle cose. E se gli artisti volevano essere, come Alice, tanto alti da poter spiccare il capo oltre le nubi, Praz li omaggiava da lontano con un cenno del cappello ma non si tratteneva. Gli spiriti, d’altra parte, scelgono come rifugi le cose piccole, lampade, tasche, bauli, bottiglie, e lo Zeitgeist non fa eccezione.
E non lo fa nemmeno, in fondo, questo piccolo libro di Manica che, come molti piccoli oggetti, vuole trattenere anch’esso uno spirito, quello di Praz. Per descrivere un critico anti-sistematico, l’autore ha scelto di adottare una trattazione non esaustiva ma volutamente sfaccettata, come confessa nel Riepilogo bibliografico, laddove racconta che «i capitoli del presente libro sono usciti in varie sedi ma – è l’auspicio – combinati insieme ricomposti ritoccati e rimanipolati acquistano un carattere diverso e dunque una relativa novità, non si dice al modo di Praz ma almeno secondo la via da lui tracciata più volte»; sicché questo Praz può ben dirsi «prazzesco». Sempre da Praz discende poi quell’uso di collocare ogni cosa in una prospettiva temporale che lo avrebbe condotto – è da credere – a storicizzare la sua stessa opera, se avesse avuto, come Saba, la deliziosa impertinenza di farsi critico di se stesso.
Messa in rilievo per contrasto
Adottato da Manica, questo metodo si arricchisce di un gusto del rilievo per contrasto, dimodoché l’importanza e l’originalità dei suoi scritti viene chiarita dal rapporto con testi coevi ora di Croce, ora di Moravia, ora di Falqui, ora degli eruditi di cose romane. Giacché Manica non ha voluto troppo indugiare sull’immagine del romito di via Giuilia, ravvolto in una timidezza sdegnosa di solitario paguro, presente alla fantasia molti. Sebbene, infatti, la sua casa avesse la malinconica originalità della grotta di Pope, Praz fu presente al suo tempo che seppe interpretare assai meglio di tanti. Il senso di periclitante fragilità delle nostre concezioni del mondo dinanzi al mutare delle sensibilità e degli anni, che traluce dai suoi saggi, ha tutta la tragicità del Moderno. Attraversando le stanze della sua casa-museo in via Zanardelli si incontrano di continuo instabili configurazioni di significato, scorci, analogie, riflessi: quasi lacci effimeri di brina. Come in molti peripli novecenteschi, non c’è nessuna Itaca ad attendere i naviganti: il voyage autour de la chambre termina con una vanitas: la statua di Cupido che spezza il suo arco.
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