Visioni

Il povero gatto non c’entra con le molestie di strada

Il povero gatto non c’entra con le molestie  di strada

Habemus Corpus Tutte ci siamo passate. Tutte, in modo pesante o in forma più lieve, almeno una volta nella vita

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 20 aprile 2021

Povero gatto, ultimamente così evocato con l’adozione del termine inglese (to catcall, catcalling) che indica la molestia di strada, ma che non vuol dire chiamare il gatto. Tutte ci siamo passate. Tutte, in modo pesante o in forma più lieve, almeno una volta nella vita siamo state oggetto di apprezzamenti, fischi, commenti, battute sul nostro aspetto, sui nostri abiti, su come guardiamo, camminiamo, ci muoviamo percorrendo o attraversando una strada o un marciapiede. Si va dall’operaio infilato in una buca mentre sta riparando una tubatura del gas e che tira fuori la testa dicendo «Che gambe!», e ti ritieni fortunata che non ti abbia detto «Che mutande» vista la sua favorevole posizione a guardare da sotto in su, per arrivare all’accrocchio di maschi che, fermi quasi sempre davanti a un bar, tacciono ma è come se parlassero con quei sospiri carichi di significato e di «Mmmm!». Per forza dopo eviti certi crocicchi, cambi percorso, acceleri il passo o, nel più autolesionista dei casi, modifichi il tuo modo di vestire e di camminare. Mica sempre si ha voglia di sfidare le occhiate, suscitare commenti con sottofondo sessuale o rispondere a tono.

QUANDO MI E’ CAPITATO, ed ero in vena di replicare, mi sono fermata e ho detto: «Grazie. La prossima volta ditelo anche alle vostre figlie». Mica hanno gradito, anzi è sceso il silenzio e la seconda volta sono stati al posto loro, prova che certi eroi della battuta cercano proprio quella cosa lì, la supremazia del gruppo dando per scontato che, se sei sola, starai anche zitta e buona, i coraggiosi.
Ogni tanto trovi anche quello gentile che si gira a guardarti senza dire nulla, un innocente in confronto a quel signore anziano, per di più giudice di tribunale, che mentre eravamo nella sala di attesa di una stazione cominciò a fissarmi, toccarsi da quelle parti e sudare. Non potevi nemmeno accusarlo di nulla perché guardava e basta, consumava le sue fantasie in silenzio, il poveraccio. In quei casi hai solo una scelta, andare via, ma comunque giri i tacchi piena di rabbia perché come al solito sei tu a doverti difendere e non il soggetto a essere svergognato.
Qui mica si dice che bisogna smettere di guardare o corteggiare le donne, si sottolinea che certi modi di fare non sono complimenti, non sono giochi di seduzione, ma forme di aggressione scelte proprio per mettere a disagio, mostrare una supremazia e trasformare la passante in oggetto.E veniamo al termine entrato nel linguaggio comune, catcalling. Beh, il gatto c’entra poco o niente.

COME CI INSEGNA l’Accademia della crusca, catcall vuol dire fischio, grido, lamento e compare alla fine del Settecento per indicare disapprovazione a un artista in teatro. Prima ancora il sostantivo catcall veniva usato per indicare i «versi che i gatti fanno di notte», e molto probabilmente quando sono in amore con quei lancinanti «arrrow arrrow».
Ora, fra quel fischio di dissenso artistico, il verso del gatto e la molestia di strada non c’è nulla in comune, quindi impariamo a chiamarla con un altro nome. Siccome possedimo una bellissima lingua, oltre a «molestatore o molestia di strada» potremmo ben inventarci termini autoctoni. Afflittori, tormentosi, addoloranti, nuocitori, vessatori, zecchinari no perché ci sono estimatori delle zecche (vedi Gilles Deleuze), zanzarosi forse sì perché, dai, voglio vedere chi difende una zanzara, minchionetti da marciapiede, tasse da strada, infastidenti, importunatori, incomodi. Sono sicura che ognuno di voi, pescando anche nel proprio dialetto, troverebbe una miniera di termini, lasciando stare l’inglese e l’incolpevole gatto.

mariangela.mianiti@gmail.com

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