Cultura

Il potere è arroganza radioattiva sul mondo

Il potere è arroganza radioattiva sul mondoJulian Charrière, «We Are All Astronauts»

JULIAN CHARRIÈRE Un’intervista con l’artista franco-svizzero in mostra al Mambo di Bologna. Visitabile fino all’8 settembre, l’esposizione si intitola «All We Ever Wanted Was Everything and Everywhere». Scandaglia le tracce che l’uomo infligge alla natura, dai poligoni nucleari alla violenza delle frontiere

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 28 giugno 2019

Undici mappamondi che non hanno più Stati né confini, la superficie è stata abrasa con una speciale carta vetrata creata con sabbie minerali di vari paesi. Sotto i globi la polvere colorata crea nuove geografie. Opera poetica e potente che assume un valore simbolico in anni in cui le frontiere diventano sempre più militarizzate, si costruiscono muri e i paesi si arroccano nei loro confini tentando di chiudere fuori chi arriva da lontano. Si tratta di We Are All Astronauts di Julian Charrière, lavoro del giovane artista franco-svizzero, di base a Berlino, ex allievo di Olafur Eliasson, classe 1987, in mostra fino all’8 settembre al MAMbo, Museo d’Arte Moderna di Bologna. L’esposizione All We Ever Wanted Was Everything and Everywhere, a cura di Lorenzo Balbi, è la sua prima personale italiana. La ricerca di Charrière si concentra sullo studio delle tracce che l’uomo ha lasciato e inflitto alla natura, come uno studioso e un esploratore d’altri tempi in missione in luoghi remoti del mondo, scandaglia per mare e per terra ciò che rimane dopo alcune catastrofi ambientali come quella dell’atollo di Bikini nel Pacifico che nel ’46 divenne poligono nucleare americano subendo fino al 1958 oltre sessanta test atomici che comportarono una totale devastazione dei fondali oltre alla deportazione della popolazione. Una delle esplosioni causò la vaporizzazione di due isole e un cratere di duemila metri, oggi, a settant’anni di distanza restano dei monumenti sottomarini, relitti sui fondali, rovine sommerse che evocano Atlantide.
L’artista attraverso sculture, video, installazioni, fotografie, restituisce, come una sorta di moderno archeologo, gli effetti del drammatico rapporto fra uomo e natura. Un paesaggio irrimediabilmente plasmato dalla presenza dell’uomo che a suo modo sta riprendendo spazio e forma. L’ex sito di test nucleari in Kazakistan ad esempio è al centro di Polygon, una serie di scatti in bianco e nero che appiaono quasi onirici e poetici. Durante l’esposizione le pellicole sono state cosparse con particelle di sabbia e terra radioattiva del luogo e hanno prodotto un effetto di scie luminose, tracce fantasma.
Tewa First Light, altra serie fotografica a colori con esposizione doppia per l’azione di materiale radioattivo, mostra panorami tropicali paradisiaci delle isole Bikini con palme, spiagge, tramonti, come da cataloghi turistici, ma in cui il sole rievoca quello atomico. L’effetto di questi scenari accattivanti è frutto di una bellezza distruttiva. Elemento simbolico ricorrente della mostra è la noce di cocco, realizzata in un guscio di piombo per ricordare l’impatto del progetto atomico sull’isola e le radiazioni presenti nel frutto, oltre a rievocare il piombo di cui erano rivestiti i bunker per non danneggiare i negativi dei fotografi che documentavano gli esperimenti atomici. Nell’installazione video In the Real World It Doesn’t Happen That Perfecly, realizzata con Julius von Bismarck, gli artisti hanno ingannato i media con falsi attacchi ecoterroristici nell’Arches National Park dello Utah, ponendo una questione sulle false notizie, e il rapporto fra finzione e realtà. Le immagini sono state riprese da agenzie di stampa e diffuse da autorevoli canali di informazione. Per l’occasione, oltre ai quindici lavori in mostra, è stato pubblicato il libro As We Used to Float, Noi che galleggiavamo, diario di viaggio e saggio critico, scritto da Charrière insieme a Nadim Samman sull’atollo di Bikini. Abbiamo incontrato Julian Charrière.

Come nasce la sua ricerca artistica e scientifica?
Ho cominciato a lavorare a questa ricerca artistica molto presto, durante gli studi all’Institute for Spatial Experiments fondato da Olafur Eliasson. Ho appreso molte discipline: filosofia, architettura, biologia. Il mio orizzonte si è allargato e rapidamente ho sviluppato una strategia artistica. M’interessa il movimento situazionista, sono attento ai luoghi e alle storie che si mescolano su cui poi costruisco una nuova narrazione. Vedo il mio lavoro come una forma di carotaggio: la materia e la fisica che lo costituiscono, tutti questi differenti strati di informazioni poi diventano l’opera. Ho delle idee poi cerco di trovare il medium più adatto, che può essere di volta in volta più concettuale o materico.

Non c’è nel suo lavoro un giudizio morale, una denuncia. C’è però comunque una presa di posizione.
Certo che prendo posizione. Mettere qualcosa nel mondo è già di per sé un atto politico, ma non sono un attivista. In parte posso anche esserlo, ma non prendo una posizione troppo radicale. Quando trascrivo in senso plastico una riflessione mi piacerebbe che la gente non vedesse il mio pensiero, ma che ci fosse una riflessione anche da parte del pubblico, offrire uno spazio per questo invece che dare dei diktat. L’arte è uno stimolo intellettuale, non deve essere facile, ma una sfida.

Le tecniche utilizzate sono molto diverse, eppure un filo conduttore unico rende la mostra molto fluida. Si sente come un artista archeologo nell’esplorare la materia che poi diventa arte?
Tutto è connesso anche se ci sono molte forme diverse. Per ogni progetto c’è un filo conduttore, una storia. Amo l’idea delle metodologia scientifica, ma non sono uno scienziato o un archeologo, non ho nessuna pretesa di esserlo, ma amo utilizzare un metodo usato in altri campi di ricerca per fare la mia.

Nonostante le catastrofi naturali indagate, lei non manda un messaggio negativo. La natura appare anche nella sua reazione a questo attacco da parte dell’uomo…
Sono un grande ottimista. Credo che gli artisti riescano a forgiare lo sguardo. La radioattività naturalmente è un pericolo, i test atomici sono negativi, ma si parla di ciò che l’umano non riesce a comprendere e in questo trovo qualcosa di molto bello; c’è bisogno di una sollecitazione estetica per catturare l’attenzione del pubblico e farlo riflettere su problemi repulsivi come le radiazioni. Si può trovare la bellezza ovunque. C’è anche qualcosa di molto calmo nel paesaggio. Lavoro anche sul suono, l’inquinamento sonoro è una questione orribile, tuttavia ci porta in uno spazio che ingloba, trasporta e fa fluttuare. La mostra affronta anche il tema dell’espansione del corpo umano. In luoghi remoti e in fondo al mare si trovano le tracce che lasciamo, come delle vanitas, piccole alcove di civilizzazione. Se si osservano bene le immagini ci sono anche anemoni su bottiglie di plastica, stelle marine che si riappropriano della natura. Tutto è naturale, anche la plastica, anche se è petrolchimica è creata dalla natura, c’è qualcosa di bello anche in questo. Tutta la mostra ha a che fare con la ricerca della presenza umana e le nostre ombre.

L’opera dei mappamondi senza tracce è forte e simbolica. Cosa rappresenta?
Le molte tensioni culturali di oggi, la globalizzazione e la de-globalizzazione perché i sogni del villaggio globale si sono infranti. Inoltre le nazioni-stato nel distruggersi creano qualcosa di nuovo, questa carta che diventa polvere, qualcosa di molto fragile. I globi sono interessanti perché ogni anno sono differenti e mostrano in un certo senso quanto sia effimera l’impresa umana e la sua arroganza di colonizzare il mondo.

A cosa sta lavorando ora?
Da due anni e mezzo sto sviluppando un progetto sul polo sud e il polo nord, in un certo senso poli di attrazione culturali, il cui significato è molto cambiato negli ultimi 150 anni. Da ultimo luogo da conquistare a simbolo dell’Antropocene, con immagini di iceberg e orsi bianchi affamati in un equilibrio molto fragile. L’iconografia legata a queste regioni è principalmente scientifica, non ci sono molti interventi culturali mentre credo ci sia molto margine per creare lì. Il progetto sarà in mostra dal prossimo ottobre al museo MasiLugano.

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