Dicendo: Il racconto della vita è più importante della vita. Non dico niente di nuovo. La letteratura occidentale non comincia con un autore, ma con alcuni racconti, che chiamiamo «narrazione omerica». Conosciamo i testi, ma non l’autore.
Ulisse è giunto nell’isola dei Feaci, ma ancora non si è fatto conoscere. Il re Alcinoo decide finalmente di interrompere il cantore, che raccontava le gesta degli eroi accompagnandosi con la cetra. Domanda all’ospite perché piange ascoltando la guerra di Troia: «…la distruzione di Troia che gli dei vollero, perché fosse cantata» (Odissea, VIII, 579 – 580).

Noi moderni veniamo educati con paradigmi razionali, che derivano dalla scienza. Anche studiando gli antichi miti – dove divinità isteriche si immischiano nelle vicende umane – siamo alla ricerca di una causa. Ci chiediamo: «Perché gli dei vollero la distruzione di Troia?» La città doveva esser responsabile di qualcosa.

Gli dei erano permalosissimi, forse perché in fondo sapevano di contare poco. Sopra di loro stava il destino, la forza universale che andava rispettata anche se non era conosciuta. Il racconto era una controfaccia nascosta del destino. Il quale non voleva il bene o il male, semplicemente interveniva: il suo intervento decideva cosa sarebbe sparito dalla memoria, e cosa, invece, sarebbe stato fissato per sempre.
Dunque, l’entità chiamata racconto assumeva una vita autonoma e potentissima; indirettamente, anche questo era un risultato del destino. Essa si rivelava a tutti quando era accolta da uno spirito grande e pronunciata dalla sua bocca. Questo spirito letterario, e questa bocca che canta, sono l’agente narrativo autonomo per tradizione chiamato Omero.

La vita è limitata, il racconto e il mito sono eterni. Troia avrebbe potuto sparire nella polvere, società vivente ridotta a nulla come i corpi viventi. Ma è stata raccontata, e la sua narrazione è diventata immortale.

Perché questo può interessare a uno psicanalista?
La commercializzazione dell’analisi e i serial televisivi hanno portato a una banalizzazione. L’uomo comune, quando ha problemi che non riesce a risolvere da solo e a livello cosciente, è spinto a rivolgersi a uno psicoterapeuta. Secondo questa aspettativa commerciale, il paziente gli rievocherà le sue sofferenze; poi quello gli chiederà altri dettagli e, alla fine, gli spiegherà qualcosa che non aveva capito, ma la cui rivelazione metterà fine al dolore.
Non è affatto così. La maggioranza dei dolori psichici deriva da perdite irreparabili. È morta la persona più cara. O il partner ci ha lasciati. Possiamo persino essere vedovi di un lavoro che non tornerà più. L’analisi non resuscita vite scomparse.

È il discorso sulla ferita psichica che porta a una sua cicatrizzazione, poi a un suo superamento. La ragione, però, non è tecnica o medica ma, per così dire, letteraria. Il suo racconto non riassegna al trauma un ordine interpretativo, ma uno narrativo. Uno sconvolgimento – un ricordo che non si vuole ricordare, un pensiero che ci si rifiuta di pensare – pareva murato fuori dalla mente. Attraverso il racconto diventa filo del tessuto psichico, torna a far parte di ricordi ed esperienza. Passa da caos a ordine, rientrando in ciò che Freud chiama «Principio di realtà»: un moderno equivalente clinico del destino.

È facile dimostrarlo. Una delle psicopatologie più devastanti consiste nell’alcolismo; e, dagli anni ’60 – ’70, nelle tossicodipendenze varie. La cura principale, più diffusa e più efficace (soprattutto in rapporto alla sua estrema semplicità ed economicità), consiste nei gruppi di Alcoolisti Anonimi o di dipendenti dalla stessa sostanza. Qui, i partecipanti raccontano il loro dolore e accolgono quello altrui: senza apparati tecnici, teorici, clinici.

Come mai una cosa così semplice funziona? In realtà, ha sempre funzionato. Dovremmo quindi rovesciare la domanda: come mai il racconto del dolore è svanito? Fino alla modernità esisteva: si chiamava tragedia. Il Millenovecento lo ha sostituito con la narrazione massificata e consolatoria: lo happy-ending di Hollywood. Così, per raccontare la vita vera – dove difficilmente mancano i mali – ha inventato un dialogo tragico privato, chiamato psicoanalisi. Un rapporto così stretto e originario che Freud avrebbe passato dieci anni a leggere solo in inglese e, praticamente, solo Shakespeare.

Non stiamo dicendo che il racconto letterario e quello terapeutico siano la stessa cosa: si giunge al primo se si narra in un linguaggio universale, il secondo resta una confessione privata. Stiamo dicendo un’altra cosa. Sia nella letteratura sia in analisi, il processo psichico consiste in un trasferimento di energie dall’inconscio alla coscienza. Questo risana, e anche questo ha un precedente nell’antichità: si chiamava e si chiama catarsi.