Il potere d’après Verdi a Parma
Tutto il teatro verdiano, dall’Oberto, Conte di San Bonifacio al Falstaff, porta in scena i conflitti del potere dell’uomo sull’uomo, sia il potere politico sia quello interno ai rapporti familiari, così come quello intrinseco agli amori e, in genere, a tutte le relazioni. Come in Manzoni – «Al mondo non resta che far torto o patirlo» dichiara Adelchi morente al padre Desiderio – anche in Verdi qualcuno opprime e qualcun altro è oppresso, e spesso il persecutore è a sua volta indotto a infierire su di sé. Alla morte dello scrittore, Verdi comporrà un Requiem che è sintesi di un terrore antico, l’unica forma di coercizione che l’uomo non può vincere: la morte. A volte, essa può apparire come una liberazione: così è per Gilda, vittima sia del padre Rigoletto sia del suo seduttore, il Duca di Mantova. Potere e Politica sintetizzano «la trama e l’ordito» del prossimo festival Verdi di Parma e Busseto.
In ognuna delle quattro opere programmate, il potere della politica è declinato in maniera diversa: nel Ballo in maschera, a opprimere non è il potere, bensì chi vi si oppone. Ma è un’apparenza che inganna. Riccardo, giovane gaudente, libertario, incarnazione della nuova cultura illuministica, indubbiamente generoso, si consegna alla più elementare delle passioni, il possesso della propria donna, scambiandolo per amore. Mentre i congiurati vivono un livore quasi tribale. E tuttavia, questo intrecciarsi di passioni contraddittorie è un gioco di specchi. Il potere corrompe anche i migliori, nulla è del tutto giusto, nulla è del tutto sbagliato. C’è già l’ironia amara che guiderà i personaggi del Falstaff. Di contro, è una tragedia quasi esclusiva del potere il Macbeth, dove proprio chi più si danna per ottenere il potere prima e mantenerlo poi verrà sconfitto. L’edizione che si rappresenterà è la ripresa parigina del 1865, con alcuni cambiamenti, che rendono la partitura ancora più sconvolgente. E c’è l’aggiunta delle danze, le più belle che Verdi abbia scritto per la scena, e che è un peccato vengano, in Italia, quasi sempre soppresse. L’edizione fiorentina, senza le danze, è del 1847, ed è piena di furore risorgimentale. Per quanto possa sembrare strano, sia La battaglia di Legnano, del 1849, rappresentata al Teatro Argentina di Roma, lo stesso in cui andò in scena la prima del Barbiere di Siviglia di Rossini, sia l’Attila, del 1846, che a Parma sarà eseguito in forma di concerto, portano in scena patrioti assai poco esemplari.
L’eroe, anche agli occhi di Odabella, è Attila, non Ezio. E tra i patrioti lombardi, prima della battaglia di Legnano, regnano la discordia e il rancore, prevale il possesso, la proprietà esclusiva dei vincoli familiari, la gelosia, anche nei confronti del compagno d’armi: sull’afflato patriottico, dominano dunque la congiura, l’inganno, la vendetta. Il mondo del potere è un mondo di passioni che distruggono ogni senso di solidarietà: anche il patriota, infatti, si ritrova corrotto dalla smania di sopraffazione. A differenza di Manzoni, Verdi ha un’idea pessimistica dei rapporti umani; o meglio, condivide l’idea che il nostro cuore è un «guazzabuglio», senza tuttavia avere fiducia in un intervento della Provvidenza. «Gran Dio, morir sì giovane!» non è solo il grido disperato di Violetta, ma di tutti i personaggi verdiani, la cui vita quaggiù è un inferno, ma altrove non ce n’è un’altra. La morte di Simon Boccanegra, o quella di Desdemona, raffigurano come più efficacemente non si può, questa irrisolta, ineludibile ingiustizia della vita, che riguarda soprattutto i migliori, coloro che dovrebbero sfuggire alla condanna della disperazione. «Tutti gabbati. Tutto nel mondo è burla» dichiara Falstaff, in coro con gli altri personaggi.
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