Il potere carismatico del corpo del capo
Il capo danno L’indossare indumenti militari sacralizza la forza del comando. Ma si può rovesciare il «messaggio» denunciando come dietro ci sia il grottesco e riderne, riderne, riderne…
Il capo danno L’indossare indumenti militari sacralizza la forza del comando. Ma si può rovesciare il «messaggio» denunciando come dietro ci sia il grottesco e riderne, riderne, riderne…
L’attacco alla democrazia è serrato ma c’è una immagine che forse lo rileva più di ogni altra: quella di Matteo Salvini che indossa indumenti militari o dei corpi di polizia : giacche dei carabinieri, cappelli con i distintivi, impermeabili, giubbe catarifrangenti e una serie di altri gadget che evocano l’autorità delle divise e che il Ministro della Paura esibisce non solo sui social, ma in tutti i luoghi delle tragedie e perfino al Senato (come riportava un trafiletto del Corriere della Sera). È un atto che fa venire i brividi a chi ha memoria di colonnelli e colpi di Stato, che già prefigurerebbe un illecito giuridico (Usurpazione di titoli e di onori secondo l’art.498 del codice penale) , ma che soprattutto ratifica mediaticamente un illecito simbolico, contribuendo a quella regressione arcaica del potere e della politica in una fase tribale, premoderna e arcaica la cui analisi ho già tentato di fare in “Claustrofilia” (sul Manifesto di qualche mese fa).
L’INDOSSARE indumenti militari fa parte di una strategia comunicativa che si concentra essenzialmente sul corpo, sul corpo del Capo feticcio su cui si deve mantenere sempre viva l’attenzione dei sudditi per sacralizzarne la forza e per veicolare un comando carismatico, eroico, ipnotico, violento, nefasto, veterano, programmaticamente animale, che si estende sulla morte e sul dare la morte. È una iconocrazia che abbiamo rimosso fra le ombre d’Europa e che torna ad affacciarsi sempre più spesso, in una pratica politica che è ormai tipicamente italiana e che si incentra sull’esibizione fisica di chi , al comando, si autoelegge emblema dell’intero popolo e della sua autorità. Dentro questa esibizione pero non si mostra solo uno spettacolo ma si annulla la modernità del potere e l’essenza stessa della democrazia. La modernità politica della democrazia, sappiamo con Max Weber, si fonda infatti sulla divisione fra il corpo del Re e il Corpo dello Stato, quest’ultimo solo legittimato a esprimere la Nazione e il Popolo decisore e riunito. La riaffermazione mistica del corpo del Capo, dei suoi gesti, dei suoi rituali, dei suoi misteri, mira invece a riconnettere in senso teologico il potere, e, come ci spiega Ernst Kantorowicz in un saggio cardine per capire l’ultra destra sovranista e nazionalista, a rafforzare «i due corpi del Re», aggiungendo al suo corpo concreto e visibile, emblemi e simboli del suo corpo politico immortale e invisibile.
IL POTERE CARISMATICO, veterano e bestiale, ha sempre a che fare con l’immortalità. Lo abbiamo visto già con Berlusconi, simbolo perfetto del Capo che non deve morire, anche se è già morto (come è accaduto a Breznev o a Franco). Egli ha gestito il suo ventennale e immenso potere sulle masse attraverso un rituale apotropaico che si fondava sull’esibizione del suo corpo sottratto al passare del tempo, al suo naturale logoramento, in quanto è l’eternità di quel corpo che sfida la mortalità stessa del corpo del suddito, destinato invece a invecchiare e morire. L’iconocrazia berlusconiana, come ha sottolineato Marco Belpoliti, è stata perciò piena di espedienti scenotecnici volti a esorcizzare la sua morte naturale, attraverso sia l’esibizione di una infinita potenza sessuale e orgiastica, sia mostrando segni di vestizione (bandane, maglioni sportivi, ecc.) tesi a esaltare l’eterna giovinezza, resa probabile anche grazie a tecniche mediche costosissime che hanno reso rinnovabile il suo corpo (fitness, lifting, liposuzioni, trapianti dei capelli, cure di vario tipo).
L’ICONOCRAZIA di Salvini, ugualmente carismatica e taumaturgica, si fonda invece non solo sulla capacità di sconfiggere la propria morte attraverso un corpo forte, giovane, maschio, sudato e militarmente vestito, ma anche attraverso la potenza di poter dare agli altri la morte, che è poi l’apice del potere barbarico. Lo dice, in un classico , Elias Canetti (Masse e Potere), declinando la complicata tesi per cui è potente chi acquisisce potere di morte e che anche si distingue dalla morte.
Chi è morto, dice Canetti, giace, sta per terra; chi sopravvive sta in piedi. Già solo questa collocazione spaziale rende «l’stante del sopravvivere, l’istante della potenza»: egli, il vivo, è il potente perché ha la soddisfazione di trovarsi ancora in posizione eretta, percepisce un senso di ‘altezza’ del sopravvissuto, con la sensazione di essere invulnerabile: una emozione comparativa che non risparmia nessun rapporto, e che «esigerà la ripetizione». Chi ha preso gusto al sopravvivere cercherà di accumularlo. Cercherà di provocare situazioni in cui possa sopravvivere a molti per ergersi al di sopra di tutti e di tutto e anche per controllare la paura che tutto e tutti si ergano contro di lui. In ciò consiste, secondo Canetti, anche il suo massimo piacere: il «piacere del cimitero» che lo spinge, inesorabilmente, alla battaglia tesa a «seppellire la vita, la nuda vita, sotto un trono di morte», «un trono che poggia su mucchi sterminati di cadaveri e su una sentenza di morte, la quale costringe la vittima a fuggire».
Si tratta , come si vede, di una allucinazione, che però vince e che funziona. Il punto politico è però se si può curare, se si può sconfiggere. Io credo ancora di sì. Come la claustrofilia barbarica si può lenire tornando a far politica in piazza, nell’amore dell’aperto, il potere carismatico del corpo esibito del capo, si può rovesciare denunciando come, dietro quel sacro, ci sia il grottesco e riderne, riderne, riderne…
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