Visioni

Il posto precario, viaggio nel mondo dei senza diritti

Il posto precario, viaggio nel mondo dei senza dirittiUna scena da «Il posto. A steady job» di Gianluca Matarrese e Mattia Colombo

Incontri Gianluca Matarrese e Mattia Colombo autori del documentario sul «bus della speranza»

Pubblicato più di un anno faEdizione del 15 aprile 2023

Notte. Facce addormentate su sedili di autobus. Chiacchiere e spuntini condivisi. Dopo migliaia di chilometri, l’arrivo all’alba. Palazzetti dello sport. Migliaia di candidati. Tutti in fila. «Performa» le tue competenze e torna indietro: questo il destino comune di generazioni di infermieri, ostetriche, OSS, in pellegrinaggio come anime purganti per il «posto fisso» dal sud al nord del paese. Co co co, sfruttati, senza ferie o malattie, difficile permettersi la trasferta. Così Raffaele, ex aspirante infermiere di Cava dei Tirenni (Salerno), ha inventato il «bus to go», servizio di trasporto low coast che permette di fare tutto in 24 ore. La sua storia, insieme a quella di tanti aspiranti, è al centro de Il posto. A steady job dei documentaristi Gianluca Matarrese e Mattia Colombo. Un affresco in movimento, estemporaneo e delicato di questo nostro atroce presente di precarietà e mancanza di diritti in lavori cruciali come la sanità pubblica. Il posto è stato proiettato ieri per la prima volta in Campania a Napoli per la rassegna Astra Doc. (prossime date Bologna 18 maggio, Mantova 25 maggio). Ne abbiamo parlato con i registi.

Da dove nasce il film?

Mattia: Tempo fa leggemmo un articolo belga che raccontava questa vicenda. Contattammo Raffaele, l’organizzatore dei viaggi, e decidemmo di salire su uno di questi autobus, facendo una sorta di sopralluogo girato. Tornati, abbiamo strutturato il film. L’idea era riprendere le persone a bordo, le loro chiacchiere, costruirci una narrazione. Mentre troupe estere avevano dato ampio spazio alla notizia, in Italia non se ne parlava. Questo riflette anche le difficoltà di produrre il lavoro. È un film su una storia d’Italia, prodotto quasi interamente da Francia e Germania. Provocatoriamente mi chiedo se è perché si tratta di qualcosa che qui non vogliamo vedere.

Che tipo di taglio avete dato alla narrazione?

Gianluca: Un infermiere che deve spendere dei soldi per lavorare è un fenomeno atipico. Inizialmente ci siamo chiesti se non fosse quello il film, ma non volevamo sacrificare il coro di concorsisti. Così abbiamo messo al centro del coro un corifeo/ personaggio principale che fa da collante.
Mattia: La lavorazione è durata tre anni, 2018- 2020, con riprese dilatate a causa del covid. All’inizio doveva essere un unico viaggio, poi sono diventati tre capitoli: il momento pre pandemia con gli autobus pieni, l’arrivo del covid e le sue conseguenze; l’ultima parte in cui anche Raffaele ricomincia a viaggiare per fare concorsi e il suo personaggio prende più forma.

«Il Posto» è stato proiettato molto all’estero, oltre che in Italia. Quali sono state le reazioni?

Gianluca: In Italia dopo la visione resta l’amaro, è una tragedia senza speranza. C’è tanta rabbia.
Mattia: All’estero c’è una sorta di curiosità folkloristica nel guardare l’Italia «messa male». Oltre al viaggio, il concorso in sé è una cosa bizzarra. Altrove ci sono altre modalità di assunzione. In Corea è successa una cosa curiosa. Lì la società è molto competitiva, ci hanno detto che su quell’autobus dovrebbero esserci persone nemiche tra loro. Invece il film mostra un atteggiamento che i coreani associano all’immagine dell’Italia: persone che, quando stanno sulla stessa barca, si sostengono, condividono anziché separarsi.

Può un documentario cambiare la realtà, mostrandola?

Mattia: Non ho iniziato questo lavoro con una consapevolezza politica. Dopo questo film e il successivo, ho capito che è importante che il documentario sollevi riflessioni. Penso che debba raccontare una storia che possa portare avanti un pensiero politico: è fondamentale.
Gianluca: Abbiamo la fortuna di fare un mestiere che ci piace, certo non salviamo vite ma di sicuro possiamo cambiare le cose, soprattutto la consapevolezza nel guardarle.

Prossimi progetti?

Mattia: Al festival di Nyon, Visions du Rèel ho appena presentato Pure unknowns, con la co regia di Valentina Cicogna. Racconta la battaglia di Cristina Cattaneo, un medico legale si occupa di identificare i morti senza nome. Persone dimenticate dalla società: prostitute, anziani, ultimamente soprattutto migranti. Dal 2015 sta cercando di identificare le mille persone a bordo di un peschereccio libico affondato nelle acque della Sicilia. Non esiste una legge che obblighi le procure a identificare, a meno che non si tratti di morti violente. È una battaglia etica e politica che la porterà al Parlamento Europeo.
Gianluca: Ho due lavori in uscita. Les beaux parleurs racconta di alcuni ragazzi «smart» di un liceo del quartiere parigino del Marais che hanno creato un concorso di arte oratoria in cui esplorano il tema delle èlite. È un lavoro su educazione, meritocrazia e scolarità. L’altro progetto è L’expérience Zola. Una troupe di teatro mette in scena L’ammazzatoio di Emile Zola: le loro vite durante le prove assomigliano molto a quello che portano in scena. È un lavoro sul confine tra arte vita, e sul fuoco della passione che accende questi mestieri. Con Mattia faremo un altro film insieme, dobbiamo ancora decidere quale: le idee sono tante.

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