Il ponteggio civile di Pinin Brambilla
Un incontro in occasione del libro «La mia vita con Leonardo», Electa Vinse, da sola, la sfida proibitiva del Cenacolo. Adesso ricorda, con pudore e consapevolezza, quell’avventura milanese durata vent’anni
Un incontro in occasione del libro «La mia vita con Leonardo», Electa Vinse, da sola, la sfida proibitiva del Cenacolo. Adesso ricorda, con pudore e consapevolezza, quell’avventura milanese durata vent’anni
Il restauro del Cenacolo come lezione di storia civile: potrebbe essere questo il sottotitolo del bel libro che Pinin Brambilla Barcilon a oltre tre lustri dal termine dei lavori, si è decisa a scrivere per raccontare quell’esperienza assolutamente unica, vent’anni passati a tu per tu con il capolavoro (La mia vita con Leonardo, Electa, pp. 120, euro 19,90). Un libro scritto senza nessuna presunzione, con molta sincerità, e anche con umiltà: Pinin Brambilla ha condotto sostanzialmente da sola la sfida proibitiva del restauro, e a buon diritto avrebbe potuto mettere al centro se stessa. Invece ha preferito documentare quella straordinaria situazione di contesto, quella convergenza di buoni comportamenti, quella dimensione di responsabilità di ciascuno dei soggetti coinvolti nell’impresa, che sono stati il retroterra necessario per portare a termine la delicatissima impresa. E in questa scelta «narrativa» di Pinin Brambilla, si può dire, sta una prima lezione di storia civile: lezione doppiamente significativa perché frutto di un comportamento di oggi, non di buone pratiche del passato, ormai appartenenti alla storia.
Una seconda lezione di storia civile è la questione femminile. A fine anni settanta è una donna a salire da sola sui ponteggi della pittura murale più famosa del mondo e a prendersi le responsabilità di un intervento che avrebbe cambiato profondamente l’immagine di quel capolavoro. Del resto forse solo una sensibilità femminile poteva ristabilire un contatto con la pittura di Leonardo, che se ne stava schiacciata e quasi umiliata da tanti interventi prevaricatori. «Non saprei dire se un uomo avrebbe potuto fare altrettanto», mi dice Pinin Brambilla, incontrata in una magnifica giornata di sole, nel suo studio milanese. «Il Padre eterno ha dato a tutti noi delle doti, chi bellezza, chi intelligenza, chi abilità manuale. A me ha dato una certa sensibilità, per cui quando vedo un quadro, immediatamente riesco a valutare e a vedere come potrebbe venire fuori il restauro… È una sensibilità che fa sentire l’opera. Un restauratore non può confidare solo su doti teoriche o meccaniche. Il femminile probabilmente aiuta in questa dote».
Il Cenacolo andava scovato con pazienza, senza pretese, facendo i conti sino in fondo con quella sua fragilità costitutiva. «Era come una creatura che avesse sperimentato tutte le malattie possibili. Una creatura che però alla fine non cade mai. Non cadde neanche quando le bombe del 1943 fecero terra bruciata tutt’attorno e il suo muro, sganciato dalle strutture, fu l’unico a restare in piedi. Il restauratore deve fare i conti con questo doppio volto del destino. La fragilità da una parte, e dall’altra un’irriducibile resistenza. Un’opera che si rifiuta di morire, la definiva Renzo Zorzi».
Pinin Brambilla ha lavorato sola sul ponteggio per quasi tutta la durata del restauro. Solo alla fine, avvicinandosi la scadenza del centenario, si fece aiutare da due altre restauratrici della sua squadra, per accelerare un po’ i tempi. Lavorò sola, ma senza mai essere lasciata sola. E questa è un’altra lezione esemplare che si ricava dal libro. «Fu una situazione esemplare in cui persone di qualche autorevolezza mi accompagnarono in questo percorso, condividendo le scelte e in particolare evitando la perdita di tempo di inutili polemiche», racconta Pinin Brambilla. Il riferimento è in particolare a Carlo Bertelli, sovrintendente di Brera, e a Renzo Zorzi che rappresentava lo sponsor, l’Olivetti, senza il quale il restauro non sarebbe stato possibile. In particolare Zorzi svolse un ruolo chiave. «Un uomo di grande senso civile – ricorda la restauratrice –, che non prevaricava mai, che non faceva mai pesare il proprio ruolo, pur essendo colui che metteva i soldi. Pur rappresentando un privato, aveva un grande senso della propria funzione pubblica e dei confini che doveva rispettare». Non solo, Zorzi accompagnò il restauro con tante decisioni collaterali di grande intelligenza che contribuirono non tanto alla spettacolarizzazione, quanto a una maggior conoscenza diffusa del capolavoro che in qualche modo stava per «rinascere». E Pinin Brambilla cita l’idea della mostra dei disegni preparatori custoditi a Windsor, il restauro della copia più fedele del Cenacolo, quella del Giampietrino, l’avvio dei «Quaderni del restauro» che permisero una riflessione e un approfondimento in diretta su ciò che del capolavoro si andava via via svelando. La pagina introduttiva di Zorzi sul primo numero del 1984 (giustamente ripresa largamente nel libro), in cui si sintetizza come possa configurarsi il ruolo del privato in un’impresa come questa, è davvero esemplare: una pagina di storia civile, che purtroppo non ha fatto cultura. «Oggi siamo lontani anni luce da un approccio del genere – sottolinea Pinin Brambilla –, oggi prevale la ragione dell’immagine e la pretesa di apparire. Si passa subito all’incasso, mentre nel caso del Cenacolo lo sponsor era stato sempre discreto, pur senza sottrarsi a nessuna delle sue responsabilità e senza rinunciare a un’intelligente e attivissima capacità di iniziativa. Non sentii mai una volta Zorzi mettere l’accento sul dato economico, anche quando a volte, per necessità, si usciva dai budget previsti».
Il risultato di questa condivisione di intenti e di questo rispetto reciproco dei ruoli, è stato il «miracolo» di un bassissimo tasso di litigiosità su un intervento che si sarebbe prestato invece facilmente a polemiche mediatiche di sicuro effetto. Persino Federico Zeri, partito assolutamente prevenuto rispetto alla filosofia del restauro, fu indotto a rivedere le sue posizioni. «Lo accompagnammo sui ponti, facilitandogli la salita con degli scivoli», ricorda Pinin Brambilla. «Volevamo che si rendesse conto da vicino di cosa stesse emergendo dal lavoro di restauro. Ricordo il suo sguardo di meraviglia, davanti ai tanti particolari in cui ritrovava le ragioni di tanta pittura lombarda successiva». E in un’intervista ad Avvenire ammise che il risultato «era sorprendente, di molto superiore a ogni lecita aspettativa…. Soltanto adesso è possibile leggere la luce, la struttura luministica dell’opera».
Poi ovviamente c’è Leonardo. Quando Pinin Brambilla salì per la prima volta su un ponteggio con l’allora soprintendente Franco Russoli, l’impressione fu completamente negativa: «Non riuscivo a capire la materia, era un ammasso di grumi, disseminata di piccole zone chiare là dove era caduta la superficie dipinta». Il primo vero incontro con Leonardo, un incontro in cui finalmente il genio si apriva all’occhio della sua restauratrice, è di qualche anno dopo. Alle prese con la lunetta centrale Pinin Brambilla scopre una titubanza del maestro nella resa di uno scudo con il tracciato di un biscione. È come l’inizio di una confidenza, di una progressiva sintonia destinata a riservare tante sorprese. «Osservandolo e studiandolo con attenzione – ricorda – mi sentii piano piano invadere da un senso di calma: cominciavo a costruire una serie di ragionamenti, riuscivo a riordinare mentalmente i tanti dati: mettere in fila le domande e capire come interrogare la parete mi sembrarono un buon punto di partenza».
Prima di lasciarla le chiedo quale sia l’apostolo a cui si è più affezionata. La risposta è senza esitazioni: «Matteo. L’abbiamo liberato dalla barba, l’abbiamo ritrovato giovane, con i cappelli ricci e biondi, una postura classica e con quella sua gestualità sorprendente. Per di più Matteo ci concede un frammento di quel mantello blu su cui Leonardo lavorava a doppia stesura con lapislazzuli e azzurrite, e a volte rifinitura con la lacca. Bellissimo».
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