Il piombo degli anni
Intervista Incontro con Wienke, sorella di Ulrike Meinhof
Intervista Incontro con Wienke, sorella di Ulrike Meinhof
Ulrike Meinhof moriva in carcere 40 anni fa, a 41 anni. Per le autorità, un suicidio. Per i militanti e i movimenti, un’omicidio di Stato su cui ancora si discute. Ulrike faceva parte della Rote Armee Fraktion. Quando morì, sua sorella Wienke aveva 44 anni. Le due donne avevano ciascuna la propria storia politica, e la condividevano. Dopo l’arresto di Ulrike nel 1972, Wienke portò avanti per decenni l’impegno a favore dei detenuti della Raf, contro l’isolamento carcerario e per la loro liberazione. In questa intervista con Ron Augustin, parla dell’evoluzione politica, della prigionia e della morte di sua sorella.
Un documentario su Patrice Lumumba, «Death Colonial Style», diretto da Thomas Giefer, mostra che ci vollero quattro decenni per rivelare le circostanze precise della sua morte. Quando hai visto l’opera di Giefer, compagno di studi di Holger Meins, hai detto che avrebbero potuto essere necessari 40 anni anche per sapere che cosa era accaduto a Stammhein. Ci sono fatti nuovi?
No. Le conclusioni della Commissione internazionale d’inchiesta, presentate in una conferenza stampa a Parigi nel 1979, avevano rivelato tali contraddizioni all’interno dei rapporti ufficiali per cui ogni sforzo risultava orientato a occultare la vicenda. Non voglio entrare nei dettagli per l’ennesima volta, ma Ulrike si sarebbe impiccata alle sbarre di una finestra che si trovavano dietro una spessa lastra metallica. Le foto della polizia mostrano che il suo piede sinistro era ancora appoggiato su una sedia quando fu trovata. La corda alla quale era appesa era così fragile e lunga che avrebbe dovuto rompersi, o la testa avrebbe dovuto scivolare fuori nel salto. L’assenza di sanguinamento e altri indizi sembravano indicare un intervento esterno, e la Commissione internazionale di inchiesta concluse che mia sorella doveva già essere morta quando fu impiccata. Posso fare ipotesi. Ma c’era una scala di soccorso del tutto indipendente dal circuito carcerario, che dall’esterno portava vicino alla sua cella, al settimo piano. Chiunque avrebbe potuto arrivarci.
Come sei venuta a sapere della sua morte? Hai potuto vederla ancora?
Il 9 maggio alle 9 del mattino i mezzi di informazione riferivano che Ulrike si era suicidata. Con l’avvocato Axel Azzola mi precipitai a Stammhein. Al nostro arrivo il corpo era già stato portato via. Gudrun Ensslin avrebbe voluto vederla, ma il procuratore federale non glielo permise. Io dovetti identificarla prima dell’autopsia, ma a parte questo non ci fu un’altra occasione. Azzola ottenne di parlare brevemente con Gudrun, che vidi per la prima volta. Era così sconvolta che a malapena poteva parlare. Non ricordo esattamente, ma parlammo del suo ultimo incontro con Ulrike, il giorno prima alla finestra; avevano scherzato insieme. Lo stesso giorno ci fu una conferenza stampa degli avvocati, a Stoccarda. Ci andai per spiegare che Ulrike mi aveva detto chiaramente, quando ancora si trovava a Colonia-Ossendorf: «Se muoio in carcere, vuol dire che mi hanno uccisa; io non mi ammazzerò mai». All’epoca si trovava ancora in un’ala morta, totalmente isolata.
In seguito il procuratore Kaul parlò di tensioni fra i detenuti che queste avrebbero «spinto l’ideologa della Raf verso la morte». I media ricevettero brani di lettere che avrebbero provato questa ipotesi.
Sì, pubblicarono brani di lettere vecchi di quasi un anno, frutto di una discussione difficile, che poi si era conclusa. Gudrun parlava di un «processo di consolidamento» prodottosi all’interno del gruppo. Brani decontestualizzati e parzialmente falsificati. I prigionieri autorizzarono il loro avvocato a divulgare la corrispondenza nel suo insieme. Ma i media non rettificarono. Negli ultimi giorni della sua vita Ulrike, con gli altri a Stammheim, lavorava ai testi per il processo. Quando, il 4 maggio 1976, gli altri affrontarono il tema del ruolo della Germania nella catena dell’imperialismo,Ulrike non era nella sala delle udienze ma in una cella per visitatori nel sottosuolo, e preparava la sua prossima dichiarazione, con l’avvocato Heldmann. La petizione, sul ruolo di Willy Brandt e della socialdemocrazia teesca nella guerra del Vietnam, fu poi esposta durante il processo da Andreas Baader. Il 6 maggio, Ulrike ebbe con l’avvocato Oberwinder una, per dirla con le parole di quest’ultimo, «discussione vivace nel corso della quale la signora Meinhof aveva esposto il punto di vista del gruppo», e il 7 maggio, due giorni prima della sua morte, discuteva con l’avvocato italiano Giovanni Capelli sulla posibilità di costruire una difesa internazionale per i prigionieri politici. Già nel 1971, quando Ulrike e gli altri erano ancora ricercati, si parlava di «tensioni» all’interno del gruppo, per diffamarla. Lei incarnava «la voce della Raf» e sono ancora molti quelli che amano presentarla come una «plagiata», così da «salvarla per la sua appartenenza borghese», come ha scritto recentemente un giornale tedesco. Vogliono dimenticare che era una comunista, con una lunga storia politica iniziata negli anni ’50. Le versioni ufficiali non ebbero mai presa su di me perché io e mia sorella eravamo molto vicine.
Il vostro ultimo incontro?
La mia ultima visita in carcere fu nel marzo 1976. Dopo la sua morte andai a far visita a Jan Raspe, Gudrun e Andreas. Là, nel quadro del lavoro per la creazione di una Commissione internazionale di inchiesta, si sviluppò con loro un rapporto di fiducia. Mi era concessa ogni volta un’ora e mezza di visita con ciascuno di loro, mattina, pomeriggio e il giorno dopo. Questo voleva dire che i prigionieri potevano parlare fra loro di quello che avevano discusso con me e che non si doveva ripetere tutto ogni volta. Diverse volte Gudrun fu l’ultima, allora ci si diceva: bene, avete già parlato di tutto, racconta, e come va, e via dicendo. Andavamo d’accordo. E’ anche per questo che le ridicole distorsioni sui media mi colpiscono tanto. Avevo a che fare, semplicemente, con persone che in una situazione concreta si comportavano in modo conseguente. Questo fu molto utile.
La tua prima visita in carcere avvenne una settimana dopo l’arresto di Ulrike. Ti raccontò quel che aveva dovuto subire prima che alsuo avvocato fosse permesso di vederla?
Le visite avvenivano sempre alla presenza di funzionari dei servizi sicurezza dello Stato. C’era spesso Alfred Klaus della Polizia federale, il «poliziotto di famiglia», quello che fece i primi «psicogrammi» su membri della Raf. Di molti temi non si poteva parlare perché ci minacciavano di troncare la visita. Ma fu il suo avvocato a dirmi che aveva potuto vederla solo quattro giorni dopo l’arresto, dopo una quantità di perquisizioni corporali umilianti sotto la minaccia di un’anestesia forzata con l’etere. Di certo era stata anche percossa, aveva molti lividi. Jutta Ditfurth ha descritto tutto nella sua biografia. Ulrike era a Colonia-Ossendorf in un’ala morta, cioè in totale isolamento, anche acustico, senza la presenza di altri prigionieri. L’isolamento come detenzione individuale era conosciuto già ai tempi della messa al bando del Kpd, il Partito comunista tedesco. Sapevamo dai comunisti, imprigionati negli anni ’50, che si ricorreva a segnali, bussando sui muri e sui tubi, per comunicare da una cella all’altra. Ma Ulrike era sola in quell’ala, non aveva nessuno con cui comunicare. Le parlavo delle mie esperienze con persone con disabilità gravi, del loro isolamento nella società, e della loro lotta, perché l’isolamento incide sulla persona in modo terribile. Allora, dopo essere stata nell’ala morta per otto mesi e successivamente per altre settimane, mia sorella scrisse un testo per descrivere quelle che succedeva là dentro; iniziava con la frase «la sensazione che la testa esploda…». Poi il procuratore federale cercò di farla trasferire in uno stabilimento psichiatrico per una verifica del suo stato mentale. Fu anche ordinata una scintigrafia del suo cervello sotto anestesia forzata, con il pretesto che Ulrike aveva un tumore cerebrale: l’obiettivo era provare la sua alienazione mentale o giustificare un intervento chirurgico. In realtà, quello che nei media è presentato ogni volta come un tumore cerebrale era una tumefazione inoffensiva che era stata individuata e curata mentre lei era incinta, nel 1962. Il procuratore federale lo sapeva benissimo, ma utilizzò la cosa per mettere in dubbio la salute mentale di Ulrike. Questi tentativi di psichiatrizzazione furono bloccati solo da una grande mobilitazione popolare in tutto il paese e anche all’estero. Si è spesso ripetuto che Ulrike si era fatta plagiare e manovrare da altri, in particolare da Andreas. Ridicolo: era lei ad avere l’esperienza politica più lunga, era stata uno dei portavoce più importanti del movimento degli studenti, un percorso più solido di quello di molti altri all’epoca. E aveva un carattere fortissimo.Nella clandestinità e in carcere era rimasta la stessa, aveva scritto, lottato con gli altri. I cliché nei media sono sempre gli stessi, pre-confezionati 45 anni fa dal suo e marito Röhl e dall’amico di lui, Stefan Aust, per cancellare in lei la «voce», cioè l’identità politica del gruppo.
Eri direttrice di una scuola speciale; nel tuo lavoro o altrove, non hai mai avuto problemi per via del rapporto con tua sorella?
Sì, certo. Nel periodo in cui Ulrike era ricercata, fra il 1970 e il 1972, la polizia mi sorvegliava in permanenza. Mi seguivano, anche ostentatamente, ovunque andassi. Due volte, Alfred Klaus della polizia federale venne a intimarmi di incontrare mia sorella per convincerla a costituirsi, altrimenti sarebbe stata uccisa. In seguito, il partito dei cristiano-democratico Cdu aprì la campagna elettorale con l’attacco alla riforma scolastica del partito socialdemocratico Spd citando come esempio deteriore la sorella di Ulrike Meinhof. Non ero nell’Spd, ma era chiaro che accusavano il governo locale (socialdemocratico) di non avermi cacciata dal posto di lavoro; è andata avanti così per anni. Evidentemente, erano messe in discussione anche le mie idee politiche. Ero di sinistra, avevo elaborato una critica di fondo rispetto alla pedagogia applicata alle persone disabili, ma ero anche solidale con mia sorella. Non ho mai preso le distanze da lei. Durante lo sciopero della fame dei prigionieri politici, nel 1974, fui arrestata una volta, per il mio lavoro nei comitati di sostegno. La notizia passò alla televisione; mezz’ora più tardi il presidente del consiglio dei genitori, un ferroviere, venne a casa mia per vedere se era tutto a posto, e convocò una riunione dei genitori, i quali denunciarono il trattamento riservato alla direttrice della scuola dei loro figli. C’era questo, all’epoca, la solidarietà. Ed era certo un’altra spina nel fianco per le autorità scolastiche. Alla fine ho scelto il pre-pensionamento. Sono stati contenti di sbarazzarsi di me. Dopo la conferenza stampa della Commissione internazionale d’inchiesta a Parigi nel 1979, non mi fu più consentito di visitare i prigionieri, fino al 1992: mettevo a repentaglio «la sicurezza e l’ordine dell’istituto penitenziario».
Come parlavate tu e Ulrike dei rispettivi percorsi politici? Eri riuscita a cogliere i momenti decisivi che avevano portato alla Raf?
Ognuna aveva la propria storia politica, ma con molti scambi. Per esempio, lei aveva scritto e fatto ricerche sui bambini che avevano bisogno di educazione speciale, e quindi era venuta nella mia scuola. Fu di grande aiuto per farmi ottenere tutti i libri dei pedagoghi degli anni 1920, perché esistevano solo riproduzioni non autorizzate e lei poteva procurarsele. Entrambe ci politicizzammo nel movimento contro il riarmo della Germania; partecipammo alla fondazione del partito Dfu, l’Unione tedesca per la pace, un tentativo concreto di creare un’ampia coalizione di sinistra. Poi, Ulrike aderì per cinque anni al Kpd, il partito comunista messo al bando. In seguito, l’organizzazione studentesca Sds, Associazione degli studenti tedeschi socialisti, si radicalizzò portando alla creazione dell’Apo, l’opposizione extraparlamentare degli anni 1960. Ulrike lasciò gli studi per potersi dedicare interamente al giornalismo, soprattutto nella redazione della rivista Konkret, ma anche presso altre riviste e per la radio e la televisione. Era una delle voci più importanti del movimento studentesco. Tutti si contendevano i suoi articoli, frutto di ricerche accurate. Quando ci incontravamo noi due, parlavamo dei nostri figli, ma anche della situazione politica, dei movimenti di liberazione, del Vietnam. Nel febbraio 1968 si tenne il Congresso internazionale sul Vietnam. Ulrike si era trasferita a Berlino da quattro giorni. Nel mese di ottobre conobbe Andreas e Gudrun, al processo per l’incendio di due grandi magazzini a Francoforte. Mi raccontò quanto fosse stata colpita dale loro idee politiche. Con Konkret non aveva più molto a che fare, come aveva spiegato in uno dei suoi ultimi articoli, con il titolo «Columnism». Lavorava ancora al film Bambule, faceva parte di un comitato di quartiere nel sobborgo berlinese Märkische Viertel, e soprattutto era impegnata nel dibattito a livello internazionale. Non sapevo che Ulrike stesse partecipando alla liberazione di Andreas Baader. Mi aveva raccontato che era stato arrestato e che in un modo o nell’altro doveva tornare libero. Quattro settimane prima di entrare in clandestinità, venne a chiedermi di occuparmi dei bambini se le fosse successo qualcosa. E così, quando uscì la notizia della liberazione di Andreas, immaginai che lei avesse a che fare con la vicenda, e corsi a casa per essere pronta a ricevere i suoi figli. Le cose poi andarono in un altro modo rispetto a loro, ma in ogni caso la sua decisione per la clandestinità era ormai chiara. In seguito, Ulrike motiva questo passo spiegando che per lei «l’opposizione politica e l’organizzazione di una struttura clandestina coincidono».
Traduzione di Marinella Correggia
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