Visioni

Il piccolo Atari e il cane Spots, l’innocenza della rivoluzione

Il piccolo Atari e il cane Spots, l’innocenza  della rivoluzione

Al cinema «Isle of Dogs»,Wes Anderson torna all’animazione con un omaggio al Giappone e a Akira Kurosawa. Il cumulo di rifiuti tossici su cui sono deportati i cani diviene un paesaggio contemporaneo

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 3 maggio 2018

C’è una città in un Giappone futurista come un fumetto degli anni Sessanta che si chiama Megasaki, il cui sindaco-dittatore Kobayashi perseguita i cani. E c’è un ragazzino, «il piccolo pilota» Atari, che fugge a bordo di minuscolo jet per ritrovare il suo amato cane Spots su quella che chiamano «l’isola dei cani», una terra post-apocalittica intossicata da cumuli di rifiuti di ogni tipo. È lì che il sindaco Kobayashi (gattaro incallito), suo padre adottivo, ha deportato tutti i cani della città, quelli coccolati di famiglia e quelli di strada perseguendo uno sterminio organizzato dalle radici antiche, e che da sempre oppone i Kobayashi alla specie canina.

Isle of Dogs, il nuovo film di Wes Anderson ha la grana trasognata che caratterizza le sue immagini anche quando parlano di dolori e traumi e ingiustizie crudeli. Il regista torna all’animazione dopo Fantastic Mr.Fox e con la scelta della stop motion dà un effetto inverso all’andamento fluido del film digitale. La sua isola canina è il posto degli esclusi, dei perseguitati, di chi diventa «clandestino» e perde tutto, a cominciare dalla propria identità sociale, e per sopravvivere in modo aberrante è costretto a lottare contro lo sconforto, a ritrovare in ogni singolo gesto un po’ di umanità.

E i suoi rivoluzionari, chi ha ancora l’energia di scuotere il mondo sono i bambini, gli stessi che in Moonrise Kingdom fuggivano dalle regole degli adulti per scoprire una magia imprevedibile dell’esistenza che può durare solo se non viene anestetizzata nei codici che vogliono organizzarla. Alla repressione razzista del politico che cavalca con pericolosissima deriva autoritaria le paure dei suoi cittadini – i cani sarebbero portatori di una pericolosa influenza che li rende aggressivi – si oppongono uno scienziato non pazzo ma consapevole che con la precisione della ricerca scientifica smaschererà la montatura, la sua assistente (con la voce di Yoko Ono) e soprattutto i giovanissimi studenti guidati da una ragazzina pure lei clandestina con la testa bionda di ricci che ricorda quella di Angela Davis.

Diviso in capitoli con flash-back che riportano a momenti del passato dei personaggi, Isle of Dogs seguendo la ricerca di Atari, aiutato da cinque cani nell’impresa, tocca temi sensibili del nostro tempo: quel paesaggio quasi archetipico di rottami industriali ricorda nelle atmosfere i capannoni in cui vivono i marginali di Downsizing, il deserto di Blade Runner 2049 più che del primo Ridley Scott, i sotterranei di The Shape of Water o i terribili campi di concentramento per suini transgenici di Okja, in cui l’esclusione fonde esseri viventi e luoghi in un unico magma.

I cani sono quelli che parlano inglese (con le voci di molte star tra cui Greta Gerwig, Bill Murray, Ed Norton, Frances McDormand, Harvey Keitel … e per questo si deve cercare la versione originale), gli altri, gli «umani» vengono tradotti (non tutti) dal giapponese. Non è questione di un semplice «contenutismo», perché non è difficile immaginare in quei cani i migranti e i clandestini di oggi, o chi è respinto ai margini, folle sempre più numerose da una divisione del mondo sempre più gerarchica di ricchezze e miserie o nel sindaco le strumentalizzazioni dei politici: il punto è il cinema che condivide un sentimento del contemporaneo a cui prova a dare un’immagine guardando alla sovversione di generi – fantascienza, horror, fantasy … – che si accordano forse perché «preveggenti» dell’epoca attuale.

In questo mondo salvato dai ragazzini Anderson (che ha scritto il soggetto insieme a Roman Coppola, Jason Schwartzman, Kunichi Nomura) riversa le sue passioni, l’umorismo delicato, l’ironia, la musica (di Alexandre Desplat) i colori e le trame di un universo fantastico che la scelta della stop motion rende narrativamente più libero. All’inizio l’idea era quella di fare un omaggio a Akira Kurosawa, ma anche a Miyazaki, Suzuki, Kitano, e più in genere al Giappone di cui Anderson cita con gesti d’amore le arti, il sumo e il teatro kabuki, i ragazzini di scuola con le loro divise le stesse dei protagonisti dei pink movie anni Settanta – porno rosa come lente per ingrandire la società e inventarne un suo rovesciamento. Anche Atari e i suoi amici, umani e cani, ci dicono che è possibile cambiare. Magari con un po’ di rieducazione all’umanità.

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