Conviene non sottovalutare quello che è avvenuto ieri alla camera dei deputati, mentre partiva l’ultimo giro della corsa dell’autonomia differenziata. Il presidente dell’assemblea di Montecitorio, che è un leghista non particolarmente noto per la sua indipendenza rispetto alla maggioranza che lo ha messo in carica, ha dovuto riconoscere nero su bianco che d’ora in avanti quello che la destra si è permessa di fare durante i lavori parlamentari – e cioè ripetere un voto, perché lo aveva perso, e neanche a distanza di minuti ma di ore e giorni – bisognerebbe proprio cercare di evitarlo. Perché, evidentemente, questa prassi cancella del tutto anche la sola idea che il parlamentare possa essere autonomo dal controllo del suo gruppo (decidendo per esempio di non votare o votare diversamente dall’ordine di scuderia) e altera la regolarità delle decisioni, consentendo persino che si cambi la composizione del collegio tra un voto e l’altro. Meglio evitare in futuro, tanto più che l’«incidente» sull’autonomia non è il primo analogo che accade.

Ma intanto quello che è fatto è fatto. È così l’autonomia differenziata va avanti in virtù di uno sfregio certificato su carta intestata. E rischia di essere approvata definitivamente prima del voto europeo.

La Lega lo chiede agli alleati. Meloni per come vanno i lavori parlamentari sembra quasi disponibile a concederlo. Anche se questo vorrebbe dire doversi fidare che Salvini ricambierà in futuro la cortesia per l’altra riforma, quella che sta a cuore a Fratelli d’Italia, il premierato.

Per quale ragione la presidente del Consiglio lo faccia si può supporre: il crollo verticale della Lega oltre un certo limite non conviene neanche a lei, la stabilità del governo potrebbe risentirne. Ma se lo farà veramente e fino in fondo lo diranno solo le prossime sedute parlamentari, voti segreti compresi. Il gioco lo conduce Meloni e con Salvini può fare come il gatto con il topo.

Questo è il livello di riflessione politica che percorre la maggioranza nel momento in cui si appresta a cambiare i connotati della Repubblica.

L’unico metro di valutazione è il calcolo di cosa conviene di più in questa campagna elettorale per le europee.

Il precipizio dell’autonomia differenziata è imboccato ripetendo che in fondo è una legge ordinaria, che volete che sia, se non funziona si cambierà. Con l’aggiunta dell’argomento surreale, ma ripetuto anche questo e ascoltato di nuovo ieri nel dibattito parlamentare, che in fondo le differenze tra sud e nord ci sono già e non si può mica imputarle a una riforma che arriva soltanto adesso (che è un po’ come dire che quando una casa brucia si può gettare allegramente benzina sul fuoco, tanto non sarà stata quella ad appiccare la fiamma).

Il testo del premierato, nella sua ultimissima versione, è diventato un tale intreccio di norme minute e rimandi ad altre leggi che a leggerlo somiglia al regolamento di un condominio straniero passato al traduttore automatico.

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Altro che Costituzione. Non è solo una riforma pericolosa, è anche una riforma inapplicabile. Ed è doppiamente pericolosa proprio perché sarà inapplicabile, avendo però introdotto il principio della delega piena e assoluta al premier plebiscitato.

Anche in questo caso, per Meloni l’importante non è arrivare a un risultato coerente e decentemente applicabile, ma piantare intanto la bandierina. Macinare le obiezioni come inutili complicazioni. Sforbiciare ogni giorno che passa il vocabolario della politica. Bastano ormai tre parole sole. «Nazione», che va inteso come un concetto sentimentale e quindi indifferente al fatto che l’autonomia ne sta smembrando l’unità.

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«Capo», perché poche chiacchiere, il premierato deve servire a «eleggere chi governerà per cinque anni» accada quel che accada, e tanti saluti alla repubblica parlamentare. E «Giorgia», perché per acclamare chi incarna questa rivoluzione conservatrice non serve dare un cognome a quel volto che si presenta amico, quasi familiare. Perché amiche e familiari sono sempre, da principio, le maschere dell’autoritarismo.
Da palazzo Chigi la sfida punta alle fondamenta della Repubblica. Al punto in cui siamo una forzatura parlamentare così netta da spingere nell’imbarazzo anche un presidente della camera amico non è certamente l’episodio più grave. Ma è un segnale, l’ennesimo.