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Il pianeta che rende pazzi

Il pianeta che rende pazzi

Scienza Qualche precisazione su Kepler452b, la sua scoperta e la conclusione (un po' visionaria) che «un altro mondo è possibile»

Pubblicato circa 9 anni faEdizione del 25 luglio 2015

Kepler-452b, il pianeta simile alla Terra scoperto dalla Nasa nella costellazione del Cigno, ha acceso le fantasie di molti. «Siamo un po’ più vicini a trovare una Terra 2.0», ha dichiarato John Grunsfeld, uno dei direttori della missione spaziale. In realtà, non sappiamo nemmeno se si tratti di un pianeta roccioso o una nuvola di gas come Giove. Il «cugino» poi si trova a 1400 anni-luce da noi: significa che un segnale elettromagnetico inviato oggi su Kepler-452b arriverebbe intorno al 3400 d.C., caso mai ci fosse qualcuno in grado di captarlo. Anche sulla sua atmosfera sappiamo pochino e non è un dettaglio. La nostra ha condizioni di pressione e di temperatura che mantengono l’acqua allo stato liquido, ma non è detto che anche su Kepler-452b le cose stiano così.

Come ha giustamente fatto notare l’astrofisico e giornalista Amedeo Balbi su ilpost.it, il nostro vicino Venere ci assomiglierebbe molto di più di Kepler-452b, ma è un «inferno inospitale» con una temperatura di centinaia di gradi e una pressione novanta volte superiori alla nostra. L’ipotesi che qualcuno (noi compresi) possa abitare un altro pianeta sarà dunque difficile da confermare o smentire, almeno in un prossimo futuro. Eppure, da un paio di giorni i media raccontano di pianeti «abitabili», di «possibile vita extraterrestre», di «gemelli» della Terra.

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Sarebbe sbagliato considerarle solo forzature giornalistiche, se alla missione che ha individuato Kepler-452b partecipa anche l’Istituto Seti, dedicato esplicitamente alla «Ricerca di Intelligenza Extraterrestre». L’interesse della comunità scientifica è effettivamente elevato. Sia la Nasa che l’Agenzia Spaziale Europea hanno già approvato il lancio da qui al 2024 di altre tre missioni alla ricerca di altri pianeti: al di là delle suggestioni, qual è l’obiettivo reale di queste ricerche?

Prima di tutto, i pianeti sono tuttora un oggetto piuttosto misterioso. Paradossalmente, conosciamo meglio le stelle perché possiamo osservarne moltissime. Invece, solo da una ventina d’anni siamo in grado di avvistare pianeti al di fuori di quegli otto che fanno parte del sistema solare. Scoprirli ci permette di capire meglio la Terra stessa. Pianeti simili al globo terrestre ma formatisi in epoche diverse (la Terra ha circa 4,5 miliardi di anni) possono raccontarci da dove viene la il nostro pianeta e come evolverà. Confrontare la nostra atmosfera con quella di altri pianeti può anche darci informazioni importanti sulle caratteristiche che hanno reso possibile la vita e su come preservarle.

La scoperta di Kepler-452b, però, ci dice qualcosa anche sui ricercatori che l’hanno realizzata e su noialtri che ce la siamo fatta raccontare. Quando gli scienziati si dimostrano così bravi a confezionare la notizia, è lecito chiedersi se sia necessario ristabilire un confine tra chi realizza la scoperta e chi la comunica. Perché dal modo in cui si racconta la scienza dipende anche la capacità degli scienziati di convincere i cittadini. Si dirà che la ricerca di base, come quella sul cosmo, non deve convincere proprio nessuno: anzi, la sua autonomia da calcoli e contingenze immediate è il brodo di coltura ideale delle teorie e delle scoperte più visionarie.
Ma vale anche il contrario: proprio perché slegata da applicazioni commerciali immediate, la ricerca spaziale è finanziata in massima parte da soldi pubblici. I veri padroni del vapore sono dunque i contribuenti, dovrebbero dire la loro ma non è chiaro né come né quando.

È naturale che gli scienziati tentino di rivolgersi direttamente a loro, ai cittadini: quando annunciano una Terra 2.0 torniamo bambini e nessuno di noi vuole interrompere un’emozione mettendosi di traverso. Tuttavia, in tempo di austerity, antipolitica e rancori assortiti, c’è anche il rischio opposto.

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Basta un niente (e un social network) e la Nasa può trasformarsi in una specie di Bilderberg dello spazio, gli astrofisici in una «Ka$ta» multinazionale assetata di denaro pubblico, le sonde in diffusori occulti di scie «kimike» interstellari per facili collettori di consenso.

Il corto-circuito tra scienziati e opinione pubblica all’epoca di Facebook, dunque, è un gioco d’azzardo assai rischioso ma altrettanto irreversibile. Sulla Terra 2.0 ci siamo già.

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