Cultura

Il piacere della ragione genera sogni

Il piacere della ragione genera sogniUn fotogramma tratto dal film Pride and Prejudice, diretto da Joe Wright (2005)

JANE AUSTEN L’autrice di «Orgoglio e pregiudizio» ha incantato intere generazioni con l’ironia della sua scrittura. Tra biografia e critica: un numero della rivista «Leggendaria» e «Alla ricerca di Mr Darcy»Per il bicentenario della morte, numerose iniziative. E a luglio alla Casa Internazionale delle Donne di Roma

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 17 giugno 2017

Lingua immortale, stile altrettanto imperituro, Jane Austen si è guadagnata il posto della «più perfetta artista fra le donne» – come ebbe a definirla Virginia Woolf. E da lì è difficile spodestarla, nonostante goffi tentativi di chi ancora – sempre meno, per fortuna – si incaponisce a immaginarla come una pausa leziosa e irrilevante all’interno della letteratura.

In realtà, i giuramenti di perpetuo amore e di aspra ritrosia che questa «signorina» produce sono così estremi perché è complicato misurarsi con la compiutezza; l’eternità, di linguaggio e stile, deriva in larga parte da questo dato inoppugnabile. «Ma alla fine, quello che davvero conta è che leggere Jane Austen è un piacere, rileggerla una felicità». Lo spiega bene Anna Maria Crispino nel nuovo numero della rivista Leggendaria di cui le prime trenta pagine sono dedicate interamente alla «magnifica Jane», «perché c’è qualcosa di inafferrabile nelle sue storie che chiama chi legge a entrare direttamente nel gioco del detto e del taciuto – o del solo accennato».
Biografia, critica letteraria e articoli a tema, il numero 123 di Leggendaria si distanzia dal mero omaggio e tiene il bandolo del percorso complesso che da più di due secoli unisce e divide appassionati lettori e lettrici.

IL 18 LUGLIO saranno infatti 200 gli anni che ci separano dalla scomparsa della brillante e appartata autrice di Orgoglio e pregiudizio (1813), mai sposata che pure con tanta sapienza scrisse a proposito del contratto matrimoniale. Per l’occasione si intensificano le iniziative per ricordarla (come a Roma, alla Casa Internazionale delle Donne, che all’interno della rassegna «La casa (S)Piazza» – dopo l’anteprima del 10 giugno – il 3, 6 e 17 luglio dedicherà tre serate alla scrittrice inglese). Eppure, folte schiere di «Janeites» (si chiamano così i seguaci di Austen) si sono già diffuse nel mondo intero, rappresentando al meglio la gratitudine verso la propria scrittrice del cuore: ardore amoroso per i suoi romanzi, le sue ragazze e finanche lei stessa. Hanno fondato società scientifiche di studi (Jasit è quella italiana), riviste, blog, organizzato raduni e viaggi.

È proprio nel doppio passo, incantevole e struggente, di una tale sporgenza che si colloca anche la pubblicazione di un volume tanto piccolo quanto denso, scritto da Giovanna Pezzuoli dal titolo eloquente Alla ricerca di Mr Darcy (iacobellieditore, pp. 115, euro 12). Quando Elizabeth Bennet, rinunciando al suo pregiudizio, ne sperimenterà l’intramontabile charme e lui, a sua volta, si libererà dal suo orgoglio per aprirsi a un amore appassionato, il capolavoro sarà concluso. Ma come mai, si chiede Pezzuoli, questo uomo di altri tempi ancora affascina generazioni intere? La risposta si dipana nei quattro capitoli del libro percorrendo la postura rattenuta e al contempo da «anti-seduttore» di questo signore con una rendita da diecimila sterline all’anno.

CON IRONIA talmente affilata da renderla inimitabile, nel gioco relazionale costruito da Jane Austen dal 1811, anno di Ragione e sentimento fino a Mansfield Park (1814), Emma (1815), (L’abbazia di Northanger e Persuasione verranno pubblicati postumi), la domanda che si impone è perché mai la piccola creatura cresciuta in un villaggio dello Hampshire susciti ancora oggi così grande consenso. Puntellata di consistenze è la fisionomia disegnata dalla scrittrice, dal tripudio dei sensi di cui racconta in un luogo simbolico d’elezione come il ballo, ai diletti della conversazione tra donne e tra donne e uomini fino alle stesse descrizioni dei riti sociali e della differenza di classe che precipitano o si equlibrano grazie alla moneta sonante e alla libera scelta. Se oggi elementi come il ballo, la sensualità, insieme alla indagine sulla felicità e l’economia delle relazioni, circolano accanto al nome di Jane Austen, lo dobbiamo a Liliana Rampello (di cui si può leggere un’intervista proprio nel numero di Leggendaria) grazie alla pubblicazione del suo decisivo Sei romanzi perfetti, edito per Il Saggiatore.

Sgranati alla luce della grande mole di lavoro di cui siamo ormai provvisti, gli articoli contenuti nella rivista sono bussole originali all’interno di un universo multiforme: dal contributo di Crispino a quello di Mara Barbuni, autrice di un altro recente e bel libro, Le case di Jane Austen (Flower-ed., pp. 180, euro 15) che ci porta da Chawton a Norland, a Barton Cottage, Pemberley, Kellynch Hall e altre residenze. Così Barbara Mapelli; e poi ancora Loredana Metta che assume il punto di vista musicale nei romanzi austeniani, Marina Vitale si concentra sul giudizio di Wystan H. Auden che scrisse di lei che al confronto Joyce era innocente come l’erba. O ancora Alessandra Quattrocchi e Daniela Matronola che si concentrano, seppure con diverse declinazioni, sull’attualità di Anne Elliot, protagonista di Persuasione. Infine la parodia del romanzo gotico, e non solo, tratteggiata con sapienza da Paola Bono. Classica e insieme icona pop a ogni latitudine, ad Austen si dedicano continuamente riscritture, film, serie tv e graphic novel, lo raccontano Sara Bennet e Maria Vittoria Vittori.

Tutto questo interesse è forse il risarcimento che l’universo desidera riconoscere a chi è stata oggetto di vari (e spesso imbarazzanti) giudizi di molti esimi colleghi a lei coevi e non solo? Oppure può essere per l’assoluta rispondenza di verità e leggerezza con cui le sue protagoniste si sottraggono alla sventura per restare tenacemente ancorate alla corposità della gioia?

CHI LEGGE OGGI Jane Austen, o la rilegge periodicamente trovando sempre aperto lo scrigno prezioso di quel divertimento della ragione e della sensualità intera, sa di poter bussare alla porta di una maestra di orientamento. Una maestra generosa che non bara. Dalla decifrazione della commedia umana, provvista di bagliori e chiaroscuri, fino alla intuizione della danza come superba allegoria della desiderabilità e della contrattazione tra i sessi, ad affiorare è la configurazione del godimento lontana anni luce dalla prestazione agonistica a cui sovente capita di essere condannati – già solo questo potrebbe essere un motivo più che valido per accostarsi ai suoi libri. Con maggiore precisione è però la misura a disporre nel futuro l’apprendistato al pungolo dell’intelligenza, insieme a quello per l’amore che non muore. Una cifra limpida e pulsante che mostra come la lingua sia capace di produrre già il simbolico che sostiene la narrazione.

INCONTRARE JANE AUSTEN non ci difende allora dalle ingiustizie contemporanee, non rimedia a fatti specifici, né chiarisce quale sia il patto che dobbiamo rinnovare ogni giorno davanti all’abominio della tragedia umana. Fa qualcosa di più grande, ci collega alla contezza di saperci viventi e disponibili alla vitalità – che è la stessa di quella figuretta di campagna mentre dalla cucina della sua casa teneva il mondo nel palmo della mano; ci congiunge lentamente all’alleanza suprema con la distrazione, la tramuta nella obliquità dello sguardo e nella estensione di un sorriso che a volte prorompe in una risata per il piacere senza inganni che genera. In questo senso, può entrare a pieno titolo nell’antidoto contro la deriva velenosa delle passioni tristi, quelle per cui dovremmo torcerci contritamente intorno al nostro ombelico per dire che no, non siamo noi inabili alla gioia e alla festa dell’altro – di chiunque altro – piuttosto è sempre il prossimo incapace a sollecitarla.

Ebbene, Austen risponderebbe probabilmente con una battuta beffarda e graffiante delle sue, chi fa ritorno ai suoi romanzi direbbe invece che ci si può semplicemente affidare, una volta tanto, a una visione di ampiezza senza prendersi troppo sul serio né farsi catturare dall’impero della miseria. Quella per cui celebrare la festa dell’altro – o essere una solennità per qualcuno – non arriva mai se non dopo ripetuti tentativi di subordinazione e sfinimento.

Lasciarsi trascinare da una scrittura che ci renda la stessa ironia di chi l’ha messa al mondo, comporterebbe invece fare i conti con la trascurata eppure acuminata ricerca di felicità di cui siamo impastati. Non la si trova mai per intero, tuttavia è pur vero che chi esagera con la diffidenza potrebbe non scoprirne mai nemmeno un pezzetto. È un filo esile, eppure tanto forte da intrattenerci ancora nel mondo.

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