Il petrolio siriano si chiama acqua
Con alcuni colleghi americani abbiamo incontrato all’università diverse centinaia di studenti per discutere delle questioni legali che sono sul tappeto in Syria. Devo confessare che non mi aspettavo molto di […]
Con alcuni colleghi americani abbiamo incontrato all’università diverse centinaia di studenti per discutere delle questioni legali che sono sul tappeto in Syria. Devo confessare che non mi aspettavo molto di […]
Con alcuni colleghi americani abbiamo incontrato all’università diverse centinaia di studenti per discutere delle questioni legali che sono sul tappeto in Syria. Devo confessare che non mi aspettavo molto di buono da un panel in cui sedeva un ex consigliere legale di Harold Koh, (il massimo responsabile della politica obamiana degli omicidi mirati tramite droni) e un ex giudice di Corte militare, esperta di diritto umanitario (che è la nuova denominazione del diritto di guerra). Erano colleghi con cui mi era capitato di discutere in passato proprio di droni e sapevo quanto fossero disposti a qualunque acrobazia intellettuale pur di difendere il loro beniamino premio Nobel per la pace.
Chi non è abituato alle dispute fra giuristi non può rendersi conto di quanto questi possano spaccare il capello, trovando le più varie giustificazioni costituzionali per i più disumani e vigliacchi fra i gesti che una potenza militare possa mettere in opera. E chi non ha esperienza di accademia statunitense non può neppure immaginare il livello di conformismo e di politically correct che regna fra il suo mainstream. Ebbene, questa volta nessuno fra i presenti si è sognato di negare che un attacco alla Syria, per quanto chirurgico o mirato, fosse assolutamente illegale sul piano del diritto internazionale.
E’ noto come l’uso della forza sia proibito in via generale dall’art.2 (4) della Carta delle Nazioni Unite e che la legittima difesa sia la sola ragione che deroga a questo divieto. Perfino l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza, se non giustificata dalla necessità di difesa (ancorché interpretata in senso ampio) non sarebbe sufficiente a legalizzare un conflitto illegale, sebbene la prassi, come noto, sia stata ben diversa in questi quasi sessantacinque di vigenza della carta di S. Francisco. Anche sul piano del diritto interno, sebbene Obama continui a rivendicare fra le prerogative presidenziali di “comandante supremo” quella di dispiegare forze armate senza il consenso del Congresso (cosa che il premio Nobel per la pace già fece in Libia), nell’ipotesi di un espresso dissenso la cosa non sarebbe per nulla semplice. Secondo la War Power Resolution del 1973, il Presidente non potrebbe legalmente agire contro la Syria senza il consenso del Congresso, il quale sarebbe peraltro chiamato ad autorizzare un atto esplicito di illegalità internazionale, ipotesi discutibile costituzionalmente visto che le obbligazioni internazionali sono sussunte nella Costituzione Federale americana. Insomma un bel pasticcio legale che spiega almeno in parte l’atteggiamento di Obama di fronte alla via d’uscita che sembra arrivargli da Putin.
Si è osservato tuttavia, con apprezzato realismo, che la guerra in Iraq (la cui legalità era stata raffazzonata nel 2003 attraverso un’interpretazione acrobatica di un risoluzione del Consiglio di Sicurezza presa durante la guerra del ‘91) ha consentito un trasferimento di risorse pubbliche al complesso militare-industriale di 6 trilioni di dollari (seimila miliardi!), sicché le pressioni economiche per scatenare una nuova offensiva sono fortissime e molto efficaci su un presidente che non ha mai brillato per indipendenza dai poteri forti (nel frattempo, un sondaggio Pow mostra come l’odio razziale dei confronti della comunità nera sia cresciuto del 51% da quando Obama è diventato presidente).
Un ex alto consigliere agli affari esteri nell’Amministrazione Kennedy, William Polk, ha pubblicato sull’Atlantic Magazine un articolo di 16 pagine in cui si dimostra l’assoluta inconsistenza delle prove contro Assad (è stato detto in Assemblea che non basterebbero per contestare un divieto di sosta!) e soprattutto in cui si spiega la guerra civile in Syria come un conflitto per l’acqua generato dai cambiamenti climatici. Infatti, fra il 2006 e il 2011 la Syria ha subito un’atroce siccità alla quale si è cercato di ovviare scavando decine di migliaia di pozzi esaurendo le falde. Da allora a oggi circa il 75% del bestiame è morto e si sono generati quasi tre milioni di persone in estrema povertà fra quanti prima erano agricoltori nobili e rispettati. Oltre 300.000 di questi sono giunti a Damasco in cerca di qualunque lavoro, trovandosi a competere con altrettanti rifugiati dall’Iraq e dalla Palestina. Nel 2008 il governo siriano tramite la Fao si era rivolto a Usaid (l’agenzia statunitense di aiuti umanitari) dichiarando la propria impossibilità di far fronte al disastro umanitario creato dal riscaldamento globale. La risposta la sappiamo da Wikileaks: Usaid rifiutò ogni coinvolgimento proprio nella speranza di tagliare le gambe ad Assad, l’ultimo grande nemico di Israele rimasto nel mondo arabo. Sempre da Wikileaks sappiamo che in una riunione segreta al Pentagono nel 2011 in cui si discuteva dell’impossibilità dei ribelli siriani di vincere nonostante gli aiuti ingenti (da Usa, Israele, Arabia Saudita ecc.) senza intervento diretto esterno, si disse: «Non crediamo che un intervento possa avvenire se non in presenza di una grande attenzione mediatica su un massacro, simile a quanto successo con Gheddafi a Bengasi».
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