Economia

Il peso dell’effetto Serra sulla Banca d’Italia

Il peso dell’effetto Serra sulla Banca d’Italia/var/www/ilmanifesto/data/wordpress/wp content/uploads/2015/02/13/14eco1f01reuters – Reuters

Swissleaks Il capitalismo familiare italiano e il "salotto buono" negli equilibri di via Nazionale. Dalla finanza londinese un flusso di investimenti è arrivato sulle banche popolari appena prima del decreto legge che impone loro di trasformarsi in Spa. E nel sistema i controllati vigilano sul controllore

Pubblicato quasi 10 anni faEdizione del 14 febbraio 2015

Attraverso quella banca Licio Gelli riscuoteva le tessere di iscrizione alla P2: anche la n.1816 intestata ad un certo Silvio Berlusconi. Proprio la falsa testimonianza su quel pagamento costò all’ex Cavaliere la prima condanna penale della sua lunga carriera giudiziaria. La pena fu poi amnistiata dalla stessa Corte d’Appello di Venezia che aveva emesso il verdetto. Parliamo della Banca dell’Etruria e del Lazio, commissariata nei giorni scorsi dalla Banca d’Italia per «gravi perdite del patrimonio». Massoneria e finanza sono da sempre materie scivolose, ma la loro opacità di fronte all’opinione pubblica resta immutata. Lo è ancor di più in quest’occasione.

A sorpresa il governo Renzi nelle scorse settimane ha deciso che le 10 maggiori banche popolari italiane, quelle che superano gli 8 miliardi di euro di attivo, dovranno trasformarsi in Società per Azioni entro 18 mesi. Lo ha fatto con il solito decreto legge, cioè con una procedura di urgenza e indifferibilità sulla quale minaccia di imporre l’ennesimo voto di fiducia al Parlamento. Le banche che non ubbidiranno, in ultima istanza, rischiano lo scioglimento. Ci penserà la stessa Banca d’Italia a farle rigare dritto.

Si tratta di un preciso duplice segnale lanciato a tutto il mondo del credito cooperativo che comprende una parte visibile e un’altra invece molto più importante ma meno nota. Il primo segnale riguarda l’aspetto politico: le banche popolari, come tutte le banche cooperative, sono caratterizzate dal voto capitario che si sostanzia nel motto «una testa un voto» a prescindere dal numero di azioni detenute. Aldilà delle dimensioni che alcune di esse hanno raggiunto e dalle immancabili lobbies costituite al loro interno, in genere queste banche sono legate al territorio dove sono nate. Rappresentano quella forma di credito che deve fare letteralmente i conti con la quotidianità dell’economia reale che coinvolge i propri soci e i propri debitori.

Una Spa invece, dove i singoli azionisti non hanno alcun peso ma conta solo chi ha la maggioranza del capitale societario, deve pensare a fare utili per i suoi azionisti la cui residenza (Singapore, Cayman o Londra) ha poca importanza. A questi centri finanziari internazionali fanno riferimento le società di uno che di queste cose se ne intende: il signor Davide Serra, “guru” economico e finanziatore del “renzismo”. Proprio da Londra è partita un’ondata di investimenti, anticipando le decisioni del governo, proprio sulle banche popolari quotate nella Borsa di Milano. Mercoledì scorso il Presidente della Consob Giuseppe Vegas (ex parlamentare di Forza Italia) ha confermato davanti alle commissioni Finanze e Attività produttive alla Camera che «le plusvalenze effettive o potenziali di tale operatività sono stimabili in circa 10 milioni di euro».Tra quelle che hanno maggiormente beneficiato di tale ondata di liquidità c’è proprio la Banca dell’Etruria e del Lazio. Banca che ha come Vicepresidente Pier Luigi Boschi, padre della Ministra per le Riforme Maria Elena, la quale a sua volta detiene un pacchetto azionario nella stessa banca. Questo è il lato più o meno visibile della manovra.

In tutta questa faccenda ci sono un paio di dettagli sconosciuti all’opinione pubblica. In primis, la riforma in questione è stata caldeggiata (settembre 2014) dal Fondo Mondiale Internazionale e risulta tra il pacchetto di provvedimenti che lo stesso Renzi ha promesso recentemente alla “Troika”. Qui sta l’opacità della manovra.

La metà delle banche popolari interessate dalla riforma sono le uniche “non Spa” che attualmente risultano azioniste della Banca d’Italia: tutte le altre sono società di capitali privati che ufficialmente vengono definite “partecipanti” alle quote sociali di Bankitalia. È il segreto di Pulcinella che tiene in piedi tutto il sistema speculativo-finanziario nel nostro paese. Sembra assurdo solo immaginarlo ma di fatto sono i controllati a controllare il controllore che ha sede a Roma in Via Nazionale. Gli unici due soci pubblici sono l’Inps e l’Inail, che comunque detengono una quota del 5,66%: tutto il resto è in mano a società pubbliche privatizzate negli ultimi venti anni e a società assicurative (persino straniere, tipo la tedesca Allianz).

In particolare, la maggioranza delle azioni della Banca Centrale (definite “quote di capitale”) è in mano a Intesa San Paolo (grazie anche alle Casse di Risparmio sue controllate) e Unicredit: i due colossi finanziari detengono rispettivamente il 42,42% e il 22,11% del capitale della Banca d’Italia. Terza in classifica è la Assicurazioni Generali Spa che ha come maggior azionista Mediobanca Spa. Questa però a sua volta ha tra i suoi azionisti gli stessi soci delle due banche appena citate. Della combriccola che controlla Mediobanca (la leggendaria banca del “salotto buono”) fanno parte anche alcuni referenti del capitalismo familiare italiano, tra i quali Silvio Berlusconi. La Generali a sua volta detiene il 6,33% delle quote di Bankitalia. In sostanza oltre il 70% delle quote della “nostra” Banca Centrale, a sua volta socia fondatrice della Banca Centrale Europea, appartiene ad un ristretto nucleo di banche e assicurazioni organizzate in Spa.
Si dà il caso che ufficialmente ciascun «partecipante» non può possedere, direttamente o indirettamente, una quota del capitale superiore al 3%. Per le quote possedute in eccesso non spetterebbe loro il diritto di voto nell’assemblea dei soci. Come viene applicato questo criterio non è dato sapere.

Gli utili comunque sono ripartiti in questo modo: alla riserva ordinaria dell’istituto centrale, fino alla misura massima del 20%; ai “partecipanti” del capitale sociale, fino alla misura massima del 6% del capitale (attenzione, del capitale, non del voto in assemblea); alla riserva straordinaria e a eventuali fondi speciali, fino alla misura massima del 20%; allo Stato, per l’ammontare residuo. Chi decide questa ripartizione? Il Consiglio Superiore di Bankitalia, sentito il Collegio Sindacale. E chi nomina i membri del Consiglio Superiore che, tra l’altro, indica al governo nazionale e al capo dello Stato anche chi deve essere nominato Governatore? Proprio quei “partecipanti” tra i quali anche la Cassa di Risparmio della Repubblica di San Marino. Quest’ultimo Stato, è bene ricordare, era ed è tutt’oggi un paradiso fiscale.

Resta da chiarire infine chi sono i soci di questi fortunati “partecipanti” al comunque lucroso capitale sociale del “controllore” che ha sede a Palazzo Koch. In quanto a globalità non ci manca nulla: abbiamo arabi (in particolare libici), inglesi, francesi, norvegesi e persino cinesi. Ma soprattutto tra tali soci, in particolare tra quelli di Intesa San Paolo e di Unicredit, troviamo Blackrock Inc., il più grande fondo speculativo esistente al mondo. Lo stesso che dovrebbe fare da consulente nell’acquisto di titoli “spazzatura” che la Banca Centrale Europea sta tentando di compiere per “dare ossigeno” alle piccole e medie imprese italiane. E figurati quanto quelli di Blackrock (4320 miliardi di dollari di capitale – più del doppio dell’intero debito pubblico italiano) sopportino di avere di mezzo coloro che decidono ancora con il meccanismo del voto capitario: «una testa, un voto». Pare già di riascoltare la chiamata di servizio: «Rottamatoreee?…».

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