Visioni

Il personale è politico

Il personale è politicoPippo Delbono

Locarno 66 Con «Sangue» presentato in concorso, Pippo Delbono affronta il tema del distacco e la vita, dividendo lo schermo con Giovanni Senzani, ex capo Br

Pubblicato più di 11 anni faEdizione del 14 agosto 2013

Pippo Delbono è irrefrenabile, le parole gli escono impetuose, come cavalli al galoppo, emozionate e senza compromesso, col suono di una necessità violenta e di un sentimento categorico. Sangue, quando lo incontriamo, è stato presentato al festival (e lungamente applaudito dalla sala strapiena) nel concorso in prima mondiale pure se del film si parla, almeno in Italia, già da settimane. Non c’è da stupirsi perché sullo schermo insieme a Delbono c’è Giovanni Senzani, capo delle Br, e sappiamo in Italia è un argomento tabù. «Io e Giovanni veniamo da mondi opposti. Da ragazzo non mi occupavo troppo di politica, e da bambino non mi piacevano le pistole nemmeno quelle ad acqua. Preferivo giocare con le BAMBOLE infatti poi si è visto come è finita» dice. E aggiunge: «Mi dicono che il film sarà attaccato in Italia per la presenza di Giovanni e per le cose che affrontiamo. Non era comunque la sua storia il punto di partenza, ho filmato perché volevo riuscire a guardare in faccia il fatto che mia madre, la persona che più amavo stava morendo, e io l’avrei persa per sempre. Ed è lî che ho incontrato Giovanni, anche lui stava perdendo qualcuno che amava».

Però in Italia ogni volta che il cinema prova a affrontare il terrorismo si grida allo scandalo. Non è un caso se non è diventato immaginario, e che quasi tutti i film sull’argomento sono zoppi

In Italia preferiamo la la menzogna, ma un paese che non vuole conoscere il proprio passato non saprà mai dove sta. Non ci si interroga mai sulle migliaia di persone che muoiono ogni giorno in mare scappando dalle guerre in Africa, come non ci preoccupa più di cercare la verità su fatti come la strage di Bologna o altre fasi oscure della nostra Storia. Nel mondo migliaia di persone muoiono di Aids e le cure costano 1500 euro a scatola, io sono sieropositivo e sto benissimo perché posso permettermi una serie di cose che a tantissimi altri sono precluse. Mi dà fastidio l’ipocrisia della falsa morale che imperversa in Italia quando si affrontano certi argomenti; se dici «Sai, nel mio film c’è Senzani», stai certo che tutti ti guardano male. Lo ripeto non condivido nulla delle scelte di Giovanni, penso che uccidere significhi uccidere te stesso, come dice il buddismo che pratico da venticinque anni, e la rivoluzione in cui credi. Però non sopporto la falsità del perbenismo, lo stesso di chi pensa che Bobo è un poverino perché è handicappato. Ma non è vero, Bobo è anche un grandissimo stronzo, è stato in manicomio quarantacinque anni ma possiede il segreto dell’arte, una grazia che quando sta insieme sul palco all’etoile dell’Opera di Parigi, dopo un po’ gli obiettivi dei fotografi sono tutti attratti da lui…

Senzani racconta l’omicidio di Roberto Peci soltanto nel finale, dopo che entrambi avete perduto le persone amate, tua madre e sua moglie. C’è una ragione per questa scelta?

No se non che in quel preciso momento Giovanni mi ha detto: «Voglio raccontare». Io non scrivo sceneggiature, non potrei mai farmi uno schema in cui dico ecco, adesso Giovanni parla di questa cosa, io poi faccio questo … Aspetto che sia la vita a portarmi le storie. Io l’ho ascoltato quando lui ne aveva la necessità e ho ripreso le sue parole umilmente, attento a che la luce fosse quella giusta, che il suono fosse buono. Prima non mi interessava, a volte quando lui ha provato a dirmi qualcosa mi addormentavo. Non volevo che il film fosse sui morti ma sulla morte e sulla vita. Credo che il tempo riesca a farci capire le cose in modo diverso, e sono profondamente convinto della sacralità della vita, ma in un senso profondo, totale, in quella dimensione del bene e del male che è dentro l’uomo, e come dico alla fine del film nel sorriso di Budda, nella forza di credere che nessuno può sfuggire alla vita nemmeno con la morte.

Hai filmato tua madre in modo quasi ossessivo. È stato anche il tuo modo per lottare contro il dolore della sua perdita?

Penso che il personale è politico come si diceva nel 68. Volevo essere accanto a mia madre, mentre la filmavo, e lei l’amore della mia vita stava andando via, non riuscivo a smettere, mi sentivo come diviso, da una parte io che le tenevo la mano e sentivo che non c’era più, dall’altra questa parte che filmava. Il dolore era straziante ma da quella morte è nato qualcosa di vivo, è stato il modo per raccontare la storia di Giovanni. Un’amica quando sono partito per l’Albania con la mamma che stava già malissimo inseguendo la fantasia di trovare una medicina miracolosa mi ha detto – è una psicanalista: «Pippo stai fuggendo dalla morte di tua madre». E così ho voluto guardarla quella morte, fermare ogni momento, andare fino in fondo.

La scena in ospedale con lei che sussurra parlando insieme a te dei tuoi spettacoli è fortissima.

A un certo punto non si tratta più di tua madre, lei è diventata la madre, qualcuno che ti dà la libertà e te la toglie, un’immagine poetica come diceva Pasolini. In questo senso, come dicevo, il privato diviene politico, ed è questo il cinema politico che è contro l’ideologia. E questo film nasce da una necessità non da un assunto ideologico. Ecco perché sono convinto che più della presenza di Giovanni, a fare ’scandalo’ come si dice è il linguaggio; non quello che dici ma come lo dici. Nel finale quando tra le macerie dell’Aquila mi chiedo se non sarebbe meglio riprendere le armi, mi rispondo che no, il buddismo dice che dall’inferno si arriva alla buddità, e la lotta deve essere vita.

Continui a lavorare con i mezzi leggerissimi, l’i-phone e altro..

Non penso che un film così poteva essere realizzato diversamente, e quella piccola telecamera ti permette di cogliere dei momenti straordinari, e di fermarli in quella bellezza e necessità che sono la forza del cinema, la sua verità. Poi al montaggio il lavoro è enorme, non è stato facile ritrovare il silenzio della stanza di ospedale, restituirlo nella sua oppressione con gli occhi oltre che con le orecchie.

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