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Il pericolo del ritorno dell’opzione nucleare

Corsa al riarmo «Un’opzione come l’aria condizionata in automobile», scriveva Luigi Pintor in uno dei suoi editoriali dopo l’11 settembre. Quell’articolo iniziava con queste parole: «Non ammetto che l’opzione nucleare sia un’opzione. Non ammetto che il ministro della difesa americano la metta nel conto. Non ammetto che un telegiornale prospetti questa eventualità tra la pubblicità di un dentifricio e una previsione meteorologica»

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 3 febbraio 2019

È suggestivo e inquietante, molto più che un avvincente romanzo spionistico, il racconto di un presidente degli Stati uniti pupazzo e agente del Cremlino. Indubbiamente fa presa. E fosse una bufala? C’è solo da aspettare un po’ per appurarlo, quando l’inchiesta condotta dal silenzioso e operoso Mueller svelerà quanto c’è di fondato e quanto di romanzato in quel che si dice e si scrive a proposito di Donald Trump, a partire dalla sua fortunata campagna presidenziale in poi.

Nel frattempo, in attesa del verdetto dell’inflessibile special counsel, è consigliabile la lettura di certe cifre riguardanti il complesso militare-industriale (definizione di Eisenhower), unite alla lista delle misure prese nei confronti di Mosca da parte dell’attuale amministrazione. Esercizio istruttivo, al termine del quale vien da pensare che non c’è miglior nemico del migliore amico del presidente, per chi lavora oggi con Trump nel campo della guerra, che è il più importante comparto economico americano.

Mai così florido, mai in forma così smagliante. Mai così quintessenziale. Basti dire che il segretario alla difesa reggente, dopo l’allontanamento del generale Jim Mattis, è Patrick Shanahan, trent’anni trascorsi ai vertici della Boeing, il secondo fornitore del Pentagono. Non solo di aerei, ma anche di missili e di sistemi d’arma che sono al centro del pacchetto di trilioni destinati all’ammodernamento dell’arsenale nucleare, che seguirà il ritiro degli Usa – in esecuzione a partire da oggi – dal trattato Inf (Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty) sulle armi nucleari firmato da Ronald Reagan e Mikhail Gorbaciov nel 1987.

Con amici così, Putin può star tranquillo.

D’altra parte, il suo agente a Washington gli aveva già manifestato la sua sottomissione con la conferma delle sanzioni economiche dopo l’annessione della Crimea; con il sostegno a una forza di rapido impiego della Nato, trentamila soldati, schierati contro un ipotetico attacco russo; con l’aumento dal 2 al 4 per cento delle spese militari imposto agli alleati atlantici. E poi con la fornitura di armi all’Ucraina, che Obama aveva negato.

Con il mancato ritiro, dopo l’annuncio, dalla Siria, mentre, che si sappia, neppure uno dei 50.000 militari americani di stanza in Europa è riuscito tornare a casa, nonostante i proclami del presidente filorusso.

Più la ciliegina dell’ingresso del Montenegro nella Nato che, come scrive The American Conservative, «è evidentemente irrilevante per la sicurezza nazionale statunitense», ma è un chiaro segnale ostile nei confronti di Mosca.

Ma, s’obietta, il vero obiettivo del ritiro dall’Inf non è la Russia di Putin, è la Cina di Xi. Potenza nucleare del Pacifico, la regione dove si gioca la grande partita strategica, ma potenza fuori dei trattati firmati da Usa e Russia, dotate di missili intercontinentali e di immensi arsenali atomici.

Oggi Pechino è in cima alla lista degli avversari dell’America di Trump. Sì, si può anche ragionare sui reali obiettivi a breve e medio termine della mossa del presidente statunitense. Il che però non può distogliere l’attenzione dagli effetti incontrollabili che essa produce, aprendo di fatto la strada a una giungla atomica.
A una corsa illimitata al nucleare. Innanzitutto da parte della Russia che vede saltare un accordo di cui è contraente principale.

Fosse anche vero che non è il bersaglio numero uno, non può stare ferma, nella logica della reciproca deterrenza. Una corsa che vede impegnate anche altre medie e piccole potenze nucleari, nelle diverse aree del mondo, e ovviamente la Cina in primis. Quali vincoli possono essere imposti se i due giganti militari rompono il patto? Quale limite può essere posto, chi può porlo, all’impiego di armi nucleari tattiche?

Con questo «libera tutti», il ricorso all’atomica dunque torna a essere «un’opzione». Dopo le torri gemelle, era stata l’amministrazione Bush a mettere sul tavolo delle «opzioni» possibili l’uso dell’arma nucleare.

Dopo il crollo dell’Urss, fino all’11 settembre, quell’idea sembrava destinata a diventare, se non un tabù, un’ipotesi militare, certo non politica, dentro una residuale logica di deterrenza.

Finita l’era Bush, con Obama sembrava che ci si potesse di nuovo avviare verso un mondo addirittura post-atomico. Adesso torna l’idea dell’«opzione» nucleare.
«Un’opzione come l’aria condizionata in automobile», scriveva Luigi Pintor in uno dei suoi editoriali dopo l’11 settembre.

Quell’articolo iniziava con queste parole: «Non ammetto che l’opzione nucleare sia un’opzione. Non ammetto che il ministro della difesa americano la metta nel conto. Non ammetto che un telegiornale prospetti questa eventualità tra la pubblicità di un dentifricio e una previsione meteorologica».

Parole indimenticabili. Oggi ancora più inquietanti, in un mondo in cui si sfarinano gli ultimi residui di misure condivise a tutela dell’equilibrio nucleare.

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